Colpo gobbo

Nel tempo delle fascette sui libri, uno degli aggettivi che più spesso notavo senza capire esattamente cosa significasse era “delizioso”. Colpo gobbo di Franz Bartelt, edito da Prehistorica, si sposa precisamente con l’evocazione che questo aggettivo provoca se applicato a una lettura. Si tratta di un divertissement di pieno spirito francese e felice ironia, dove la narrazione vuole mostrarsi seria solo per poi irridersi continuamente. Il lettore ne rimane spiazzato. Ogni volta sente che l’autore ha qualcosa di molto serio da dirgli, ma regolarmente interviene qualcosa che lo stuzzica, lo pungola e infine lo devia.

Scritto in tono canzonatorio e ammiccante, Franz Bartelt gioca una partita in cui si sentono echi di Amélie Nothomb ma distorti con effetti caleidoscopici, una scrittura che strega e crea tensione verso un altrove che si costruisce passo passo in un disegno che si lascia decifrare soltanto nel finale, una scrittura che abbaglia illuminando nei nostri giudizi ciò che la superficie reitera impietosa, ma che ci costringe continuamente a socchiudere gli occhi lungo i confini del sospetto, alimentato sapientemente dalla dimensione ludica e assurda che è la scena del romanzo. Ha anche qualcosa di teatrale, Colpo gobbo, dato che l’azione si svolge quasi interamente nello stesso spazio. Inoltre i personaggi sono molto caratterizzati, carichi di una densità che solo l’alternanza della scrittura nella voce narrante del protagonista, ora nel racconto delle azioni, ora nelle sue elucubrazioni, può spezzare in favore di un ritmo veloce e leggero.

Sospeso fra incredulità, ricordo e istinto di salvezza, infatti, il protagonista, di cui conosciamo solo il soprannome, il Puma, è soltanto un mezzo ubriacone che si crede poeta e abile manipolatore è stato rapito da un uomo, il ricco filantropo Jacques, che era stato vittima di un suo tentativo di raggiro e rapina. Ma Jacques si rivela più scaltro,

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Minifesto

Giulio, Fabrizio e Alessandro sono tre persone, tre studenti universitari, tre appassionati di letteratura, tre individui sensibili a parole come comunità, unificazione, relazioni, futuro. E da ora sono anche tre editori, perché il Super Tramps Club, la rivista letteraria che era e continua a essere, è diventata anche questo, e si è annunciata con il Minifesto I, il primo numero dedicato al mondo universitario, che loro frequentano in prima persona e quindi anche criticamente. Il testo, di formato agile, è composto dei loro tre contributi, accompagnati da disegni che illustrano gli episodi raccontati.

Dopo la prefazione di Fabrizio Pelli, «un manifesto serve ad unire, è un’azione di unificazione», il primo contributo, di Giulio Frangioni, che si intitola Ripetizioni – Quindici lezioni per un’università migliore, è, dei tre, quello più lungo e strutturato. Giulio parla di sé, dei suoi amici, di quello che vede ogni giorno, racconta di Luca, l’amico che deve fingere di dare gli esami perché i suoi non ammetterebbero da lui che si dedicasse alla musica, delle mail dei docenti che lo invitano a mantenere un registro elevato e formale, e dei suoi studenti: Giulio dà ripetizioni private in videochiamata che diventano regolarmente altro. Degli spazi di confronto, delle richieste di ascolto, oltreché delle lezioni private che servono a Giulio per fronteggiare le spese non esigue del mondo universitario. Il discorso si fa più ampio, si ricollega in senso generale alla logica della performance (lo studio è produzione per un esame, per un voto, mai occasione di crescita umana), che ricade sugli studenti che si affannano fra anfetamine, depressioni, mancanza di obiettivi e qualche volta tentativi di suicidio. Sono, questi, i personaggi di una scena italiana ben nota, quella del mondo dell’università, una commedia dell’arte dove uscire dalle proprie maschere sembra vietato, sembra impossibile, il canovaccio che racconta

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Marcel ritrovato

Abbiamo tutti un conto aperto con la letteratura italiana del secondo Novecento. Siamo cresciuti con i più importanti romanzi di Calvino, di Fenoglio, di Levi e di Gadda, fari di una stagione ricca e variegata che comprende numerosi autori che non serve elencare, ma su cui si ragiona tuttora a diversi livelli, scolastico, accademico, amatoriale e professionale. Si notano oscillazioni importanti nel tempo che riguardano il canone.

Alcuni di loro sono stati ampiamente allontanati da una centralità che sembrava indiscutibile, altri sono stati e sono spintonati da riflessioni critiche non sempre condivisibili, seppur indice di una riflessione più ampia sul ruolo della critica letteraria, accusata di essere marchettismo, adeguamento a linee culturali più politiche che stilistiche. Credo che il punto, semmai, riguardi il mutamento degli stili, certe rivoluzioni estetiche che il postmoderno e gli anni successivi hanno comportato, cosa che dovrebbe spingere a ragionare sui codici, a ridefinirne i confini, gli spazi, a ragionare sui motivi di ciò che è svanito, prima di costringere tutti al gioco della torre.

Sta di fatto che gli ultimi quarant’anni di letteratura hanno favorito una certa atrofia, cristallizzando nell’ombra alcune opere, fra cui questa, Marcel ritrovato, romanzo di Giuliano Gramigna uscito nel 1969, e ora rilanciato proditoriamente da Il ramo e la foglia, con una postfazione del nostro autore contemporaneo più proustiano, Ezio Sinigaglia.

Il romanzo di Gramigna merita del tutto il suo ritrovamento. L’opera può rientrare fra certi romanzi di ampio respiro (penso a Comisso, a Bianciardi, a Cassola), dove prioritaria è una ricerca del Sé attraverso i fatti della vita, erede di una quête che qui confluisce in una ricerca introspettiva assoluta in cui la presenza del narratore in prima persona si dipana fra le peripezie del protagonista arrivando alla sconfitta, l’impossibilità totale di definire l’Io, qui esposta, palese, alla luce dell’abbandono

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Il capo

Probabilmente i social non sono davvero il punto d’osservazione giusto per capire la realtà, ma forse lo sono per captare le ossessioni del nostro tempo. E giudicando da quanto è facile, facendosi un giretto su Instagram, imbattersi in post e reel che illustrano “i 5 segni per riconoscere un manipolatore” o spiegano “cos’è il gaslighting”, viene da pensare che tra le ossessioni più comuni ci sia quella per la manipolazione come pericolo che qualunque relazione umana può nascondere.

E allora la prima cosa che si può affermare su Il capo, il nuovo romanzo di Francesco Pacifico, edito da Mondadori, è che si tratta di un’opera che sa premere dove la contemporaneità si mostra sensibile. La maniera più facile per descrivere il libro è dire che si tratta, appunto, di un romanzo sul potere e sulla manipolazione. Un altro modo è riassumerlo come la storia di un abuso sul lavoro.

La protagonista è Gaia che nelle prime pagine romanzo raggiunge un resort sudtirolese per partecipare a quella che crede sarà una settimana di team building insieme ai colleghi della Fondazione, la kafkiana istituzione culturale romana per cui lavora. Ma ad attenderla non troverà nessun collega, neppure il capo che l’ha invitata e a cui Gaia sperava di strappare la lead di un importante progetto. Poco dopo scoprirà che lo chalet in cui dovrebbe soggiornare è già occupato da qualcuno: un uomo. È soltanto l’inizio di un misterioso gioco, orchestrato dietro le quinte dal capo, in cui Gaia si ritrova gettata senza spiegazioni, mentre tutto intorno a lei si carica di una sensazione di vaga minaccia.

Ne Il capo i rapporti di potere innervano ogni relazionarsi tra persone, come se muoversi nel consorzio umano significasse districarsi tra i campi di forza esercitati da innumerevoli centri di gravità. Nel corso del romanzo viene

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I vincitori del Costa Smeralda

Si è tenuto in Sardegna, nella meravigliosa scenografia di Porto Cervo, la finale del premio letterario Costa Smeralda, dedicato alla narrativa e alla saggistica. Già vincitore del riconoscimento internazionale era stato il ritorno di Emmanuel Carrère, con il suo V13, saggio edito da Adelphi. Presidente di giuria è stato Stefano Salis, giornalista e scrittore, responsabile della redazione Commenti del Sole 24 Ore, dove si occupa delle pagine culturali. In giuria, Chiara Valerio, Elena Loewenthal, Lina Bolzoni e Marcello Fois. A contendersi l’edizione 2023 sono stati – per la sezione Narrativa – Bruno Arpaia (Ma tu chi sei, Guanda), Valeria Parrella (La fortuna, Feltrinelli) e Andrea Canobbio (La traversata notturna, La nave di Teseo). Per la sezione Saggistica, Benedetta Tobagi (La Resistenza delle donne, Einaudi), Gaddabolario (a cura di Paola Italia, Carocci) e Teresa Cremisi (Cronache dal disordine, La nave di Teseo). Sul sito del premio è possibile conoscere meglio gli autori. Da Teresa Cremisi, editor di lungo corso che ha lavorato per Garzanti, Gallimard, Flammarion e oggi presidente della casa editrice Adelphi; a Benedetta Tobagi, giornalista e scrittrice, saggista di Storia contemporanea, che con La Resistenza delle donne affronta l’aspetto di genere del periodo più importante della storia recente, con un minuzioso lavoro di scoperta archivistica; al Gaddabolario, esperimento di saggistica applicato allo scrittore la cui opera Calvino descriveva nella misura di «romanzo contemporaneo come enciclopedia». A introdurre la categoria Narrativa della manifestazione può essere, invece, il realismo magico che ispira La fortuna di Valeria Parrella, già autrice di Almarina, Premio Flaiano per la narrativa. Oppure, a incuriosire può essere il romanzo familiare La traversata notturna di Andrea Canobbio; concetto ascrivibile a Freud, oltre che alla narrativa, come un percorso nella storia familiare del Sé. O il memoir di Bruno Arpaia, edito

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1889

Régis Jauffret si confronta con il limite della storia e se possibile lo porta ancora più lontano. Scrive un romanzo storico dove la storia emerge da ambientazione, luoghi e personaggi. E tempi. Il 1889 non è un anno qualsiasi né un anno scelto per una questione commemorativa. Il 1889 diventa suo malgrado l’anno dell’inizio della storia e del male. Dunque la storia cammina, verso la filosofia e il senso dell’umanità, attraverso un racconto prosaico, quotidiano e normalizzato. 1889 è la scelta di raccontare dei genitori di Hitler, che risponde a un’esigenza precisa, che è sia quella di indagare ancora su ciò che consideriamo universalmente il punto più alto del male, sia quella di ragionare sulla natura umana nei suoi rapporti e condizionamenti con l’ambiente sociale, in questo caso l’Austria di Braunau Am Inn, dentro la casa dove vivono i due protagonisti, il padre e la madre del futuro dittatore. Anche questo rientra nella complessità del tema trattato, dato che noi non vediamo mai Adolf se non nell’immaginazione della mamma che lo porta in grembo per i nove mesi in cui è ambientata questa storia. Jauffret sceglie di raccontarla consapevole dei rischi che corre, scrivendo una postfazione nella quale specifica: «I fatti e le parole citati che hanno un rapporto anche lontano con la Shoah corrispondono alla verità storica. […] Per contro, documenti e testimonianze sulla vita dei protagonisti di questa storia sono rari. […] E la finzione ha dato corpo al libro che, per questo, appartiene pienamente al genere romanzesco».

Un modo classico, naturalistico, di scrivere un romanzo, fatto di invenzioni quotidiane che si ergono ad alludere, a rappresentare, a condividere con il lettore la forza e la fragilità della Storia, attraverso la consapevolezza della fragilità di questa gravidanza che avrebbe potuto condurre a un diverso Novecento. Ma la narrazione

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