«La situazione in patria non era buona. Non bisogna sognare ma essere coerenti, mi dicevo. Non bisogna perdersi dietro a una chimera ma essere patrioti, mi dicevo. In Cile le cose non andavano bene. A me le cose andavano bene, ma alla patria non andavano bene.» Sembra che Remo Rapino sia partito proprio da qui, da una frase di Roberto Bolaño contenuta in Notturno cileno. Il titolo: Valdés in uscita per Tetra Edizioni, mente, trae in inganno; ma ce ne accorgiamo solo dopo aver letto un bel po’ di paginette. Dire che sia la storia di un ragazzino che diventa calciatore sarebbe un’assurdità, sarebbe meno assurdo, invece, dire che sia la storia di una famiglia cilena di generazione in generazione, che trova riscatto e ascesa sociale grazie a Francisco Valdés, detto Paco. E questo per i connotati politici legati all’opera, la cui chiave di lettura è imprescindibile. Ma è comunque poco esatto, proviamo invece a prendere per protagonista la storia politica delle dittature, qualunque esse siano.
«Francisco Valdés era proprio bravo, quattordici anni ancora da fare, uno scricciolo tutt’ossa e nervi. Una delizia star lì a guardare quelle gambe da grillo elicare nell’aria.»
Quindi un ragazzino che gioca a calcio, il cui talento è più volte sottolineato da Garcilaso Boscán, ex calciatore, poi un disastroso infortunio che non gli permette più la gloria tanto desiderata come goleador dei Colo-Colo, e ora allenatore in un campo malsano tutto polvere fuori città. Le vecchie amicizie permettono i buoni rapporti col responsabile del settore giovanile della squadra Colo-Colo, squadra ufficiale in prima divisione di Santiago del Cile. Passione per il calcio e per il vino, al Colo-Colo non sanno mai se s’inventa i nuovi prodigi a causa delle sbronze o ha davvero un nuovo Schiaffino tra le mani. Non è la prima volta che riesce a mandare uno dei suoi allievi a fare un provino e poi vivere felice per aver trovato un altro miracolo calcistico. Insomma, fin qui, pensiamo sia una storia abbastanza Hollywoodiana: allenatore mezzo zoppo mezzo alcolista a caccia di talenti, il ragazzino mingherlino poveraccio che gioca a calcio e diventa il piede d’oro del mondo.
Il padre di Francisco, all’inizio un po’ diffidente, perché vorrebbe il figlio studiasse e non perdesse tempo a pallone alla fine acconsente. «Va bene va bene, ma o la va o la spacca, una volta sola.» Sembra trascurabile poiché non ruba vera attenzione, ma io credo sia sempre un riflesso condizionato di Rapino di porre sotto sguardo politico ogni informazione, quindi dare al figlio comunque un’educazione, una coscienza; del successo legato al guadagno poco importa. Così Paco e Boscán, partono per Santiago: la città sede dei Colo-Colo, di cui Rapino mostra il luogo delle opportunità, della bellezza: «i lunghi viali, le vetrine eleganti, le ragazze, le insegne dei teatri…» ma anche il luogo della povertà più disperata: «a Francisco dolevano gli occhi per tutto quel guardare, a destra, a sinistra, da ogni lato, un peso grande da portare per le spalle magre d’un ragazzo». La città assume l’iniziazione alla vita, alla vita per quello che effettivamente è, non c’è più il filtro della provincia. La provincia lasciata era sì, squallida e spoglia, ma almeno scevra di sentimenti negativi che la città inesorabilmente porta nel sentire di Paco: «Guardavano ammutiti tutta quella miseria che affondava nel fango, nelle gore di acque morte, negli occhi dei bambini, che si portano dentro la profonda tristezza dei laghi. Che dire, che fare di fronte a quegli occhi, a quelle mani livide di freddo, i culetti sporchi e nudi, la palla di pezza, i cani e i gatti, un cavallo col manto ingiallito da anni di fatiche e trainamenti abusivi? Una cagliata di gemiti che seccava il cuore».
Paco osserva tutto, cerca di conservare tutto quel che vede, di vivere il sentimento di quello che vede, «ne avrebbe avute di cose da dire al suo ritorno, che già preparava il resoconto per nonno Hortensio Valdés.» Finalmente Paco ha qualcosa da raccontare a suo nonno, finora era sempre stato lui ad ascoltare, senza mai aver nulla da narrare. Entrambe storie eclatanti possiamo dire ma di diverso spessore: mentre quella di Paco, di un giorno in città, le meraviglie, la povertà e il marciume. Quella del nonno: il giorno in cui da ragazzo assistette al genocidio di migliaia di persone a seguito d’una manifestazione sui salari, disgraziatamente sgomberata con la morte di tutti i presenti, dove il nonno si salvò «con un buco grande nel cuore».
«E Paco intuiva che nelle parole del nonno c’era tutta la sua storia e quella di molte generazioni. Era una ben lunga storia quella dei Valdés.»
Rapino, quindi, si sofferma anche sulla storia del bisnonno, scegliendo di interrompere quella di Paco, già bruscamente interrotta da quella del nonno; per guardare ancora più indietro, guardare al lignaggio. Con penna onirica e lirica, assistiamo al DNA degli umili, di terre sconvolte, di migrazioni, di storie che portano il peso della coscienza ingannata dal Potere e dal più forte; «fecondare l’orto della memoria, il calendario del tempo e delle fatiche». Per testimoniare la crudeltà dell’esistenza, la lotta per la vita, sempre di per sé, spietata. In queste pagine il sentimento della morte è onnipresente e pervasivo, ma mai con inquietudine o parola angosciosa: la morte c’è, ma viene sfidata continuamente, vivendo. Infatti, subito dopo, quando torniamo a Paco che passa la selezione, la felicità domina: una felicità di luce primaverile, casta e vera. «Sì, una giornata perfetta, di quelle in cui uno desidera di non voler morire mai, manco per scherzo.»
E così passano gli anni, Paco porta il numero 10, continua a regalare splendidi gol ai tifosi. Ecco la Storia, che non è più ombra o sfondo, ma la Storia entra a gamba tesa come un intervento sporco in area di rigore. Paco, finalmente, scorge la Storia. Finora aveva vissuto pacificamente con se stesso, dimenticando, o peggio, obliando indifferente, quello che succede fuori dallo stadio. Solo poi «ma che partita strana quel 9 di settembre del ‘73!» Qualcosa è nell’aria, è la tensione che si respira fra le genti: due giorni dopo il golpe di stato di Pinochet che mette fine alla democrazia in Cile e alla vita del presidente marxista Allende.
Ecco che Paco è solo il pretesto per prendere un personaggio «nato per bailar fútbol sull’erba e far felice con minime cose la gente, che non tutti sono eroi…» e inserirlo nella Storia, non con una vicenda banale, ma di straordinaria importanza, cioè l’ascesa di Allende e poi il colpo di stato. La storia politica non fa da sfondo, è il pilastro che sorregge la trama, doveva penetrare nello stadio per svegliare Paco, un assopimento tutto a-politico e a-ideologico, di cui oggi, tutti noi siamo vittime. Un messaggio che vuol essere sicuramente d’avvertimento: la politica non può e non deve interessarci solo quando marcia, apre il fuoco, incendia le piazze e ammazza i poeti, che siano i Neruda o i Pasolini.
All’inizio del racconto non capiamo, non abbiamo punti fermi, tutto è così lirico e sfumato, come solo la lingua di Rapino può fare, gustata già in Cronache dalle terre di Scarciafratta; c’è da notare però, come lì il dialetto abruzzese sia parola vigile che spezza lo standard comunicativo. Qui invece, non c’è l’abruzzese, c’è piuttosto, un dialetto; che colora ed esprime più a livello sintattico che semantico. Il dialetto ha nelle proprie viscere un che di nostalgia e questo Rapino ce l’ha ben presente: oltre a generare una poesia ininterrotta, genera curiosità, bisogno di appigli. Indicibile è la capacità di Rapino di poetare e descrivere al contempo: lungo soffermarsi sugli astri, la natura delle cose, i luoghi, la solitudine, la morte. E poi un dettaglio, che fa da struttura e ci raccapezziamo. Non è la storia di Francisco Valdés, detto Paco; né della sua famiglia. Possiamo invece dire che i Valdés siano una scheggia che si conficca in un progetto più grande: un vetro trasparente ma guastato dalle crepe, dalle screpolature; quello che si vede oltre, è un resoconto politico, un’ingiustizia, una vigliaccheria dove tutto tace.
Il sentimento che resta a Paco è quello di non prendere posizione, di non aver coraggio a gridare ¡Estoy! durante una manifestazione contro Pinochet. Ma solo un corpo tremante nell’intimità più privata: «Perdono padre, perdono don Pablo, perdono Presidente, perdono Cile, dulce Patria. A tutti chiedeva perdono, non altro gli riusciva di fare, avrebbe voluto gridare forte ¡Estoy! ma non ce l’aveva fatta». Non assume solo un grido taciuto, ma un residuo lacerante di non accorgersi dove si è stati tutto questo tempo, di non essersi fatti un’idea, di non aver preso parte alla Storia, di avere paura quando c’è da battere un calcio di rigore, di recuperare quando non c’è più nulla da recuperare.
Il coraggio verrà, ma non oggi; Paco si promette di scrivere una lettera e lasciarla presso la casa di Pablo Neruda, ormai distrutta. Una lettera dove chiede scusa, a se stesso, al poeta, alla sua gente tutta; senza pretendere assoluzioni, ma solo affrontare il rimorso, affrontare un passato ormai immutabile. Un personaggio vittima della Storia, poiché incurante e incosciente, un po’ come al tanto affezionato Bonfiglio Liborio, sballottato dai flutti e flussi sociali, lasciarsi trasportare dall’inondazione senza provare né a nuotare né ad affondare; quindi cosa resta: pessimismo o vigliaccheria? Anche gridare un ¡Estoy! può fare la differenza, almeno con se stessi, quando ci si crede davvero, quando il sentimento vince sull’inazione.
Narrativa | Valdés | Remo Rapino | Tetra | 72 pagine