Faccio questo mestiere da un sacco di tempo, vedo i bambini sorridere quando colpiscono il bersaglio, arrivo la sera con un dolore tremendo agli occhi. Il furgoncino l’ha comprato mio padre in cambio di pollame, suini, soppressate. Erano gli anni ‘80, tutti avevano fatto il salto sociale, e mio padre era stanco di zappare e macellare. Così ci siamo messi a girare per feste, fiere; io erano più i giorni che non andavo a scuola che quelli in cui c’andavo, a lui non importava, bastava che aiutassi a smontare e rimontare senza storie. Ho preso la terza media, volevo studiare il francese, il tedesco, l’inglese. Quindi scelsi il liceo linguistico, era giugno quando una sera a cena mio padre spense la tv – era sempre accesa, se mi fermo a ricordare casa e l’infanzia non mi viene in mente altro che la tv sempre accesa, poi certo, altri rimasugli di vigne, colline, soppressate; ma la tv accesa copre tutto – e mi chiese: «Tu vuoi studiare le lingue o le lingue, insieme alla matematica, la scienza, l’arte?»
«Le lingue, faccio io.»
«Solo le lingue? Non pure le altre cose che si studiano al liceo?»
«Penso soltanto le lingue, perché.» (Senza punto interrogativo, a mio padre non si chiedeva, c’era una leggera sospensione che faceva intendere la domanda.)
«E allora tu a scuola non ci vai più, tra una settimana partiamo per la Francia e ti impari il francese.»
Io non sapevo come obiettare, mio padre era questa figura enorme, ingombrante, spaccasedie, uno schiaffo suo mi tramortiva un giorno intero. Poi dopotutto non mi dispiaceva come idea, sarei partito, avrei imparato il francese senza scartoffie. Quindi annuii semplicemente, mia madre fece una smorfia che voleva essere un sorriso, mio padre riaccese la tv col mignolo perché le altre dita erano troppo grosse e schiacciavano più tasti insieme.
Siamo partiti per Aix-en Provence, e da lì ci siamo spostati verso Arles, Nimes, Avignone. Mi innamorai di Lea, ed era luglio. Venne a sparare e non prese nemmeno una volta il bersaglio. Je sais même pas tenir une arme! E le feci vedere come si fa più o meno, feci una figuraccia e neanch’io centrai un colpo.
Facevamo l’amore qui dentro quando mio padre andava a passeggiare, poi lo sentivo tornare dai rumorosi tonfi che faceva coi piedi. Lea mi seguiva ovunque andassi, era più grande di me di poco, i genitori le permettevano qualsiasi cosa e mi stupiva la sua libertà e di quanto fossero diverse le cose lì rispetto qua. Quando veniva non indossava intimo, la sua gonna era così sottile che bastava un attimo per assottigliarla all’altezza del bacino ed entrare in lei. È stata lei ad insegnarmi tutto, e forse l’unica a piacermi davvero, sessualmente parlando. Le eccitava il mio dialetto abruzzese, non l’italiano, ma il mio dialetto che io reputavo sporco e sanguigno. A me eccitava la carnagione diaccia, che al solo mio tocco s’arrossiva e restavano le impronte, i suoi Baise-moi maintenant, chiaramente.
Erano feste molto diverse da quelle a cui eravamo abituati noi: non c’erano madonne a sfilare, non c’erano campane a baccagliare. I francesi quando volevano far festa chiamavano i circensi, le bande, si montava un palco con quattro assi, e poi c’eravamo noi con le recchie pizzate e dovevamo essere lesti poiché erano feste improvvisate, dalla durata magari d’una sola notte. Altre feste erano commemorazioni della loro rivoluzione lontana ma ancora sentita, a certe colonne che s’erano alzate, alla morte di Robespierre o Napoleone; trovavano sempre un motivo per festeggiare. Poi siamo tornati a settembre, a Lanciano le feste di settembre sono da sempre importanti e non potevamo mancare, allora io e mio padre eravamo gli unici ad avere il tiro a bersaglio. Lea l’ho persa, c’eravamo giurati tanto. Le avevo detto che sarei tornato, e lei mi aveva detto che l’estate dopo sarebbe venuta in viaggio in Italia e che mi avrebbe cercato. Il francese l’ho imparato così, prima solo Trois euros dix coups, Merci et au revoir, Je t’aime Lea comprenez-vous cela? E poi a creare frasi, connetterle, esprimermi: ragionare e riflettere con una lingua nuova, meno caparbia di quella nostra, meno storicamente compromessa. Lea mi ha regalato Les fleurs du mal, mi recitava le poesie, non le ho mai lette in traduzione. Mi ha insegnato anche com’è andata realmente la rivoluzione francese che a scuola la spiegano male, in un’ottica capitalistica-occidentale diceva Lea (Capitaliste occidental) quando si rivestiva, dopo aver fatto l’amore.
Le altre lingue non le ho imparate perché mio padre disse che non conveniva andare così lontano, che le entrate non coprivano le spese, quindi saremmo rimasti qui in Abruzzo in casa nostra col cibo nostro e che saremmo partiti solo se necessario, cosa che mai fu. Io non obiettai, mia madre nemmeno, e la tv era di nuovo accesa. Provavo nostalgia di Lea certi notti, notti di veglia in cui mi alzavo di colpo e riempivo lo zaino di panni qualsiasi e uscivo dalla finestra, poi tornavo. Ho avuto il coraggio di frequentare un altro corpo solo parecchi anni dopo, come se fossi legato ancora a quello di Lea, e mi era impossibile tradirlo. Non era una forma di appartenenza morbosa, solo un desiderio di quel corpo lì, di quella pelle trasparente lì, della quale non mi ero dimenticato affatto.
E mi dispiace parecchio che l’estate dopo non mi abbia cercato, mi dispiace non aver trovato il coraggio necessario per fuggire, magari andar da lei o fuggire e basta. Mi dispiace non aver preso il diploma, mi dispiace non sentire la mancanza di mio padre. Il dolore che mi ha dato, non facendomi continuare a studiare, l’illusione che m’ha dato promettendomi il tedesco, l’inglese: hanno sostituito il sentimento che provavo per lui. Mio padre non riusciva a stare solo, è un difetto un po’ di tutti gli uomini, e si fanno figli apposta. Non voleva che andassi a scuola per non lasciarlo solo, eppure la mia presenza non era riempitiva: c’era il silenzio tra noi, sospensioni, tremolii e legnosità. Se n’è andato com’era suo solito, con un gran tonfo: l’infarto l’ha colto impreparato, l’ha fatto piombare a terra e il suo corpo sbattendo ha fatto gridare i gabbiani. Una smorfia di mia madre che voleva essere dispiacere, sconforto. Una sospensione da parte mia: e ora? Aspettavo da lui una restituzione, qualcosa mi aveva tolto: un percorso mio, una scelta mia. Invece morendo non mi ha restituito niente.
I più anziani parlano di mio padre e della persona bella che era, che se non fosse per lui adesso non avrei l’occupazione. Che in questi tempi pure avere il tiro a segno è un’occupazione dignitosa, non vedi come tutti vanno a nord, ‘stu cazz d nord, e non tornano alla terra natia alla terra nostra mannaggiaccrist.
Si sentono soli, pensano che anch’io mi senta solo non avendo figli né moglie. Mi offrono il caffé, i bocconotti, la pizza con peperoni e alici; io gli chiedo se vogliono sparare e loro fanno no con la coccia sorridendo.
Ogni tanto resto a dormire qui dentro, non ho voglia di tornare a casa, la stessa casa dove sono cresciuto fatta ormai di polvere e silenzio, la tv ormai è spenta, la vigna degradata, la cantina dove mio nonno faceva le salsicce piena di ragnatele e surc. Vado a trovare mia madre alla casa di riposo, dice che sta bene, la sento parlare dopo anni di mutismo. Le leggo Baudelaire in francese, dice che ho una bella pronuncia e la rilassa. Esco da lì chiedendomi che vita faccia Lea, se ogni tanto le vengo in mente, se le piaceva davvero il mio dialetto.
Treglio, Rocca San Giovanni, Fossacesia, San Vito. Nessuno viene a sparare solo, sempre in coppia, poi il premio che vincono lo regalano.
Ho provato ad andarmene, cambiare mestiere, continuare col mestiere ma spostarmi in Umbria, Lazio o Molise ma qualcosa mi tiene stretto qui. Mia madre è in attesa d’una transizione; io d’una restituzione, d’un Baise-moi maintenant. E poi ieri sono andato a trovarla, lì nel suo letto stirato e sgualcito al contempo, con una mezza parentesi in volto mi dice: «Ma perché non te ne vai un po’, a Berlino o a Londra, non volevi imparare le lingue tu?»
Racconti | Baise-moi maintenant | Alessandro Tesetti
Immagine: Linea angolare, Vasilij Vasil’evič Kandinskij, 1930.