L’incontro con Gianluca Liguori è stato casuale: una mattina, zona piazza Repubblica, in mezzo a tanti libri polverosi, puzza di piscio e cibo stantio, barboni ciondolanti e gratta-deretano lungo la strada. Lì dove bancarelle, banconi, chioschi vendono libri e film porno, mentre tu cerchi un Bernhard quello accanto a te cerca un Lisa Ann, che poi è più o meno la stessa cosa. Lì risiede tutta la mia formazione culturale, sono anni che compro libri lì, anni che sfoglio libri sfogliati prima da altri. Trovare annotazioni o segni a margine è spesso motivo di coito. Le dediche sono, invece, fiducia nel genere umano perduto. Simboli e scarabocchi: il privilegio dell’inventiva non conforme, non industrializzata, l’ispirazione anonima. S’acquista a pochi spicci, le mani carbonizzate nascondano la monetina non appena la dai. Medicinali vuoti, tavernelli svuotati, denti marci. In tutta questa bellezza trovo un titolo che mi fulmina: Dio è distratto. E penso che sia un gran bel titolo, che ci vuole assai coraggio per pubblicare un titolo così, oggi in Italia; da parte dell’autore e da parte dell’editore. Anzi, non coraggio, parliamo come si deve: ci vogliono due palle così per pubblicare, oggi, in Italia, un libro che si chiama Dio è distratto.
Dico oggi in Italia non per motivi legati al cattolicesimo, ma al moralismo borghese che domina l’industria culturale. Escono solo titoli svenevoli con copertine svenevoli, fascette celebrative, biografie di autori nati nel mezzogiorno ma residenti a Torino per certi famosi studi. E questo Gianluca Liguori, questo dei titoli, di certi mieli, di certe api, lo sa bene: tutto il suo romanzo Vite di traverso è giocato su questo. Prima di immergerci, trattenere il respiro, scoprire i fondali, incontrare gli squali (che qui s’incontrano; nei libri pubblicati oggi in Italia, no: certi fondali di coralli, pesciolini, alghe, medusine innocue; insomma, Nemo), voglio chiarire prima delle cose.
Dio è distratto, pubblicato nel 2008 da Tespi, è un libro che racconta un bisogno, prima del sogno; che è quello di scrivere. Pure se è un testo a tratti acerbo, c’è dietro un autore. E non dico autore dotato di perizia tecnica, bravo ad ascoltare l’editor, soggetto intenzionale d’ogni singola parola; dico autore, nato per scrivere, dovere di farlo, pensare e percepire questo dovere, per non morire sul serio, per non farsi divorare da un qualcosa, bisogno fisiologico come certe erotiche, certe nevrosi da orgasmo.
Ho trovato Dio è distratto come un personaggio del suo nuovo romanzo Vite di traverso, trova Palle scassate. Il romanzo nel romanzo dà via alla storia.
Quando ho cercato Gianluca Liguori su Google ho trovato solo un tizio dalla faccia antipatica, una specie di mentalista. Allora ho cercato Gianluca Liguori scrittore, ancora niente, bisogna andare alla seconda pagina per trovare il sito Scrittori precari, il suo profilo Facebook, racconti usciti su Verde rivista.
Comunque, per accelerare i tempi su vaghe informazioni e nostre biografie, alla fine io e Gianluca Liguori ci incontriamo. Prima ci sentiamo su Instagram perché Facebook non lo uso (ha un profilo piuttosto strambo, lo condivide con Stefano Felici, 3 post, 73 follower, 4 seguiti; insomma, a prima occhiata, un fake) e restiamo d’accordo nel vederci a Pasto Nudo: un paio di birre, amicizie letterarie, io che leggevo Works di Trevisan, scopriamo di essere quasi compaesani, lui che mi dice Se t’è piaciuto Dio è distratto ti piacerà anche Vite di traverso, esce a fine aprile, te lo faccio avere, ma non dire niente a nessuno.
Riprendiamo dal titolo: Vite di traverso, è una presa per il culo, Liguori affida al lettore la corretta interpretazione soltanto poi, alla fine del romanzo. Se si conosce l’autore è ovvio che capiamo subito l’inganno: il titolo non può essere questo, nasconde una seconda accezione, non può essere così Holden. E infatti poi, leggendo, scopriamo il vero titolo, intendo della ricezione, di noi lettori. Ma qui non spoilero niente, andate a leggervi il romanzo.
Tutta la narrazione segue questo cripticismo parodistico paroliere, mi spiego: Liguori gioca molto con le parole, echeggia la metanarrazione, va alla ricerca di precise parole che rappresentano un titolo, un nome, un fatto, un contenuto ecc. Crea un effetto ipnotico e metalinguistico, giocando coi nomi fittizi di autori, di case editrici, titoli pubblicati e cercando sempre un nesso, tra nome e significazione, un azzeccagarbugli esteso: «Porta all’articolo Resistenza a mente armata, a firma Natalino Calvino, uscito mercoledì 12 marzo 2008 sul blog lecittainvivibili.blogtown.com, in cui è citato (seppur privo di link diretto) Mani Slavate». Questa procedura è presente in tutta la narrazione, è dotata di ironia, sarcasmo, reti di scambio tra lettore (in prima analisi si chiede il perché del nome sempre inserito, che riveste – quindi – una specificazione; in seconda analisi, il perché del nome buffo, quindi, di una specificazione buffa – in terza analisi, si risponde e sorride) e un germogliare di storie districate e lontane (ma d’un comune divisore, convergono negli stessi snodi binari: come due treni che partono uno da Palermo e l’altro da Milano, si incontrano a Roma, comunicano qualcosa, permettono ai passeggeri lo scalo, poi ripartono per altre destinazioni).
«Riferimenti a Simone T. sono presenti anche nel secondo romanzo di Fofò Mancinelli, scritto in carcere e rimasto inedito, Vite lievitate come pani, e (pare) nell’opera in versi, ambientata in uno scenario bucolico, Il lamento del potatore sensibile, andata perduta in seguito a un litigio con un compagno di cella.»
Tutto ci pare artificio, eppure lo crediamo vero: profonda verità celata nella funzione metanarrativa. L’esatta precisione, comporta credo e fede. Se Liguori fosse vago e impreciso, non crederemmo ad una sola parola.
Infatti, il protagonista indiscusso è Simone T. autore di Palle scassate, le sue vicende, il suo innamoramento con Silvia, la sua morte. Ma altri personaggi-quasi-protagonisti cuciono la trama, quali: Saverio Rizzo, Aldo Gerace, Fumagalli, zio Ghiaccio. Tutti si incontrano per vie traverse, se solo sapessero di far parte della stessa storia… ma non lo sanno: s’incontrano senza riconoscersi.
Più che guardare alle singole storie è importante notare come tutti i personaggi si occupino di letteratura, chi direttamente chi indirettamente. Il padre di Silvia scrive quattro ore al giorno da quanto aveva vent’anni ma non ha mai pubblicato niente. Si può considerare uno scrittore? Secondo l’immaginario comune e alla cattiveria-giudicante della gente (Ah lo scrittore, ecco lo scrittore, è arrivato lo scrittore!) no: Vitaliano Trevisan scriveva di non essere scrittore fino a quando non avrebbe campato di solo quello, guadagnando scrivendo. Guido Morselli s’è ammazzato perché nessuno voleva pubblicare i suoi libri, lui si sentiva scrittore ma non basta sentirsi scrittore se non c’è qualcuno dall’altra parte che riceve, legge, valuta, ciò che scrivi. Virginia Woolf in Una stanza tutta per sé scrive: «una donna, se vuole scrivere romanzi, deve avere soldi e una stanza tutta per sé, una stanza propria; il che, come vedete, lascia insoluto il grosso problema della vera natura della donna e della vera natura del romanzo».
E questo è sicuramente un cruccio di Liguori: sentirsi autore senza essere autore, quando sono autore? Perché diventarlo quando io lo sono già, gli altri non lo sanno, ma io lo so benissimo, perché devo sentirmelo dire dagli altri quando sono un autore?, ma il vero problema risiede in: Si può diventare autori? C’è differenza da chi deve esserlo (sentire e percepire il dovere di farlo, che equivale ad esserlo, un autore) e chi vuole fare questo mestiere. Questa domanda insoluta e insolubile è nota di sottofondo, un rumore bianco che attraversa tutto il libro.
Tutti parlano di letteratura, proclamano il lavoro culturale, riflettono sulla sopravvivenza dell’impegno culturale: ancora esiste? Ancora si può parlare di impegno? Come far convergere le nostre idee in modo pratico? Queste sono domande continue che portano al dialogo o all’invito dei personaggi all’agitazione, all’azione: «Il futuro autore di Palle scassate, un pomeriggio di aprile del 2001, alla fine di una lettura improvvisata sulle scale della facoltà di Lettere, davanti alla targa dedicata al ferroviere anarchico Pinelli, fu avvicinato da un tale, di poco più giovane: gli disse di chiamarsi Natalino Calvino e l’invitò a una riunione per metter su una rivista autoprodotta. L’appuntamento, fissato per l’indomani alle 18.00, era in via dei Volsci 32. «Fare riunioni costruttive» precisò «aiuta a non ubriacarsi e drogarsi inutilmente». «E poi» aggiunse «è necessario riappropriarsi del proprio tempo e degli spazi».
Le voci che fanno cultura non provengono da alture accademiche, da torri d’avorio, ma dai bassifondi suburbani, dalla sporcizia rionale, dalla voglia di fare che risiede unicamente nella gioventù: finché ci saranno i giovani ci sarà la speranza e la possibilità della rivoluzione culturale. Quindi una cultura impreziosita dagli sguardi, dai movimenti, dai posti che frequentano i giovani. Una cultura bizzarra forse non sempre perché il mondo progredisca, ma per lo meno perché il mondo si agiti. La cultura dev’essere giovane, l’autore dev’essere giovane, come giovane dev’essere la sua scrittura. Ma anche l’autore che sappia parlare ai giovani: fatele queste riunioni costruttive, non pensate solo a chiudervi nel vostro spazio autogestito a spaccarvi di canne e blaterare ogni tanto quanto fa schifo l’Italia, quanta inerzia c’è, quanta stasi, com’è offeso il mondo.
Quindi una cultura che deve necessariamente passare dal diverso, dall’Altro, come se quella regnante in tutto il ‘900 non avesse funzionato, anzi, ci stia un po’ sui coglioni. E quindi non servono gli intellettuali, ma gli scrittori di nascosto; gli scrittori che non scrivono, lo spacciatore che nel tempo libero scrive libri e fonda caffè letterari; non servono i professori ma il vecchio San Lorenzino che ha vissuto il bombardamento del ‘43, e al bar, tra una Peroni e un’altra, si mette a raccontare. Convivenza di gruppi diversi, di umanità ancora non omologata, immagazzinata e nascosta che si dimena; così come la Roma descritta, non è la Roma del centro, del Vaticano, dei turisti; è la roma di Remo Remotti, la Roma sudicia, meschina, puttana, affascinante, quella dei pischelli e delle notti fuoriporta dalla scimmia assoluta stretta addosso.
L’idiosincrasia è dichiarata quando Liguori scrive: «scrittori a ogni angolo, secondi per densità solo a studenti e spacciatori. Tutti scrittori, peggio dei fascisti quando c’era Mussolini. Roma era un’enorme scrivania».
E poi, poco più avanti, una pagina esemplare.
«Mentre là fuori è pieno di gente disposta a farsi spillare anche quattro o cinquemila euro, pure sei, per pubblicare un libro. E la pubblicazione porta dipendenza. Basta che escano due o tre articoletti su qualche sitarello e l’autore di turno si sente ’stocazzo, ne vuole subito un altro. Se i siti li apriamo noi, e facciamo scrivere ai nostri autori dei libri degli altri, si crea un circolo virtuoso. A questi basta il nome sulla copertina, e qualcuno che dica che è bravo. E sono disposti a pagare, non approfittarne sarebbe da screanzati. Perciò ho deciso di ampliare la casa editrice. È un settore, come la bianca, in cui si fa leva sulle debolezze umane. Gli scrittori sono i peggiori tra gli uomini, ce ne sono sempre di più. Ci sono più scrittori che fumatori o cocainomani! Oramai chiunque ha almeno un libro nel cassetto.»
A questo punto viene da pensare allo stesso passaggio nella Vita agra di Bianciardi: lì il gruppo di scrittori della Milano inizio anni ‘60 era spirito d’iniziativa, scambio, confronto, dibattito, litigio culturale sentito, crescita avanguardistica. Qui in Liguori c’è diffidenza, astio, quel po’ di invidia per essere solo e non essere gruppo, preferire la solitudine a quel circolo di pavoni, chiusi nel narcisismo, nel sentito dire, stereotipi, vuotezza di contenuti, gravosa perdita di tempo, inutili discorsi pseudoletterari meditabondi e sdrogheggianti. La speranza c’è ma è altrove.
Sono personaggi maledetti, romantici, che se gli dici di aver scritto una cagata questi si buttano dalla finestra. Mai dire a questi scrittori che il suo testo è mediocre, questi spariscono, non si fanno più vedere. Personaggi usciti dai romanzi di John Fante, Jack Kerouac, Charles Bukowski; mentre lì, però, c’è un io monolitico che gioisce, sbuffa, insegue il successo letterario, qui, tutti i personaggi hanno l’aureola. Liguori non si cala in un personaggio specifico, non racchiude il suo sentire autoriale in Simone T., ma lo spezzetta e lo dona a tutti i suoi personaggi dalla sensibilità di persone in carne ed ossa (non rispecchiano il bel personaggio, saldo e costruito; ma solo una proiezione di persone esistenti, di discorsi fatti e racchiusi per sempre nella memoria). Credo sia un grande gesto di generosità, una grande speranza del genere umano perduto. Non è Simone T. quello nato per scrivere, lo siamo tutti. Non c’è privilegio o merito, non serve andare all’università: basta la conoscenza, la curiosità, scrivere tutti i santi giorni finché morte non ci separi: carta e mani.
Il testo ci mette continuamente dinanzi alla domanda: sono veramente scrittori? Sono bravi, posso fidarmi di loro? Zio ghiaccio è un mafioso pluriomicida e davvero legge Terra desolata e possiede una casa editrice? Il lettore non è abituato a pensare che mafiosi, spacciatori, malavitosi nel tempo libero discorrano di belle arti. Questo romanzo richiede necessariamente un patto col lettore: se non ci fidiamo dei personaggi non possiamo proseguire la lettura, se non ci fidiamo dei loro discorsi letterari, prenderemo il testo come una barzelletta. Ma il testo è l’esatto opposto: è un rebus, una serie di indizi da interpretare e risolvere, una via investigativa, che però non veste l’abito nuziale della tradizione, cioè della detective stories; ma nel postmoderno, verso i dettami di Bolaño. La cosa assurda è che il lettore può anche non pensare d’aver letto una sorta di romanzo giallo, invece s’è letto proprio una sorta di romanzo giallo. L’incipit-epilogo è chiaro: scarse notizie su Simone T., morto suicida, trovato il suo unico romanzo capolavoro Palle Scassate. Ma il lettore non può mettersi l’anima in pace, il lettore deve chiedersi chi è stato Simone T, davvero è morto suicida, che indizi (giusti o sbagliati) ci dà Palle Scassate.
Palle Scassate è l’esemplare andato perduto, vuole essere la redenzione dell’editoria italiana, l’unico testo in grado di parlare all’industria culturale, alla società, agli autori, agli uomini e alle donne, l’unico testo distinguibile nel coacervo di opere uguali e inutili. L’unico, perduto.
Palle Scassate è anche il testo nato per desiderio e passione e piacere di scrivere (senza percorso formativo presso la scuola di scrittura creativa, senza editor-professore che corregge, senza l’angoscia e la pressione di chi si sente obbligato a scrivere, ma tranquilli, possiamo vivere benissimo anche senza leggere i vostri romanzi).
Grande intuizione è stata giocare con la componente transmediale: è stato girato un video dove vediamo Simone T. che sfoglia Palle Scassate, poi lo butta con un’espressione del tipo “che è sta cagata”, a recuperarlo è lo stesso autore Gianluca Liguori, ma il libro tra le mani non è più Palle Scassate ma Vite di traverso. Oltre allo scopo promozionale, permette una riflessione da parte nostra: perché questo video? Che senso ha?
Bisogna andare oltre alla comprensione del singolo testo, e viene spontaneo attribuire all’operazione promozionale un metodo postmoderno, transmediale, artistico. Non è solo scrivere il testo, ma anche comporre il paratesto: il video, il cambio di medium, il romanzo nel romanzo, il personaggio fittizio che scrive un romanzo. Tutti questi elementi comportano una riflessione; anzi, sono elementi che richiedono da parte del fruitore una riflessione: non si può leggere il libro senza chiedersi il motivo di questi elementi interni ed esterni al testo. Offrono una testimonianza ulteriore, una funzione di sostenimento dell’effetto di realtà.
La veste linguistica, veste – perché cambia a seconda delle situazioni: come c’è l’abito da sera, da festa, da rave, da domenica al parco – così in Liguori c’è quella romantica-elegiaca con Silvia; c’è quella precisa, critica, sociologica, saggistica attorno ai fatti illeciti, alla droga tra spaccio largo e volto periferico, impicci e imbrogli dell’Italia post mani pulite. C’è poi la mimesi linguistica-dialettale gelese, palermitana e romanesca (che grazie a dio non è stato tradotta tra parentesi come in certe scelte editoriali, grandi grandissime cadute di stile per la nostra tradizione letteraria, sfanculati Gadda, Bianciardi, Consolo ecc.); c’è quella epica-macchiettistica di Zio Gelo, quella sofferente e simbolista di Simone T, quella parodistica paroliera di cui accennavo prima.
Vite di traverso si piazza in una certa corrente marina, oceanica, da tempo dimenticata o forse mai realmente cavalcata in Italia, che è quella del romanzo nouvelle vague, potremmo dire, al postmoderno. La quale ebbe inizio con Chiedi alla polvere di Fante, I sotterranei di Kerouac, Tropico del cancro di Miller, tutta l’opera di Bukowski; poi portata in Italia -per merito dei traduttori certo, Vittorini e Bianciardi – ma soprattutto degli imitatori. Qualche anno prima di Tondelli (Altri libertini uscirà nel 1980), già Enrico Palandri con Boccalone (1979) cerca la voce adolescenziale impegnata: la rivoluzione del ‘77 infuria per le strade di Bologna ma intanto c’è un amore a scaldare. E prima ancora, nel ‘76, esce un romanzo che cambia le sorti della narrativa italiana, cioè Porci con le Ali, scritto a quattro mani da Marco Lombardo Radice e Lidia Ravera. Sono questi tre esperimenti a spianare la strada per quel che sarà la narrativa delle merci, la narrativa degli anni ‘90. C’era l’America con i suoi tesori da sgraffignare, e poi gli esperimenti italiani che vale la pena di leggere. Poi Jack Frusciante è uscito dal gruppo, La guerra degli Antò ecc. Cercare quindi uno sguardo sociologico, non solo letterario. Cercare una voce nuova, graffiante, cedevole, anarchica, giovanile, vagabonda, nuda, che possa triturare la retorica della prosa italiana. Spesso una voce che crede nella letteratura, crede nel valore dell’impegno culturale, soffre non per se stesso ma per il mondo offeso. Una voce che racconti soprattutto i giovani, non lasciarli al freddo dell’età, delle notti, delle notti in preda all’ansia di non farcela.
Vite di traverso è un romanzo da leggere e rifletterci su, prima di scrivere sta roba ho aspettato una decina di giorni, e credo, sono convinto, di non aver ancora detto niente. E come scrive Simone T.: Viva le merde!
Narrativa | Vite di traverso | Gianluca Liguori | Alter Ego | 168 pagine