Il fronte psichico

«Perché la salute mentale è una questione politica», recita il titolo di uno dei più importanti articoli di Mark Fisher, pubblicato sul Guardian ormai dodici anni fa. La denuncia contro la privatizzazione dei problemi mentali, imposta dal sistema dominante e dalle politiche neoliberiste, e l’urgenza di ricondurli a una dimensione anche sociale e politica sono punti fondamentali del pensiero del teorico britannico, scomparso nel 2017 dopo una lunga depressione.

Fisher ci ritorna in diversi testi e articoli. Nel suo libro più noto, Realismo capitalista, ad esempio leggiamo: «la pandemia di angoscia mentale che affligge il nostro tempo non può essere capita adeguatamente, né curata, finché viene vista come un problema personale di cui soffrono singoli individui malati». Insomma, per parlare di disagio mentale non basta parlare di ciò che non funziona nelle teste degli individui sofferenti, bisogna considerare anche cosa non funziona nella società. E se negli ultimi anni la salute mentale è diventata un argomento centrale e ricorrente nel dibattito pubblico, quella necessità di una ripoliticizzazione del tema su cui insisteva Fisher resta evasa.

Un libro recente che la lezione di Fisher (che non per nulla è presente fin dall’esergo) la tiene ben presente è Il fronte psichico di Jessica Mariana Masucci, uscito qualche mese fa per Nottetempo. Come annuncia il sottotitolo, Inchiesta sulla salute mentale degli italiani, il volume è innanzitutto un lavoro giornalistico, svolto in maniera molto accurata e rigorosa, finalizzato a dare un compendio esauriente di quello che, oggi nel nostro paese, è lo stato dell’arte delle questioni che girano intorno al benessere mentale. È dunque un libro fatto anche di dati, di interviste a persone che, a diverso titolo, sono coinvolte in prima linea, di esplorazione di tante e diverse realtà attive sul territorio. Ricordandosi sempre – come dicevamo – che il problema della salute

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Il capo

Probabilmente i social non sono davvero il punto d’osservazione giusto per capire la realtà, ma forse lo sono per captare le ossessioni del nostro tempo. E giudicando da quanto è facile, facendosi un giretto su Instagram, imbattersi in post e reel che illustrano “i 5 segni per riconoscere un manipolatore” o spiegano “cos’è il gaslighting”, viene da pensare che tra le ossessioni più comuni ci sia quella per la manipolazione come pericolo che qualunque relazione umana può nascondere.

E allora la prima cosa che si può affermare su Il capo, il nuovo romanzo di Francesco Pacifico, edito da Mondadori, è che si tratta di un’opera che sa premere dove la contemporaneità si mostra sensibile. La maniera più facile per descrivere il libro è dire che si tratta, appunto, di un romanzo sul potere e sulla manipolazione. Un altro modo è riassumerlo come la storia di un abuso sul lavoro.

La protagonista è Gaia che nelle prime pagine romanzo raggiunge un resort sudtirolese per partecipare a quella che crede sarà una settimana di team building insieme ai colleghi della Fondazione, la kafkiana istituzione culturale romana per cui lavora. Ma ad attenderla non troverà nessun collega, neppure il capo che l’ha invitata e a cui Gaia sperava di strappare la lead di un importante progetto. Poco dopo scoprirà che lo chalet in cui dovrebbe soggiornare è già occupato da qualcuno: un uomo. È soltanto l’inizio di un misterioso gioco, orchestrato dietro le quinte dal capo, in cui Gaia si ritrova gettata senza spiegazioni, mentre tutto intorno a lei si carica di una sensazione di vaga minaccia.

Ne Il capo i rapporti di potere innervano ogni relazionarsi tra persone, come se muoversi nel consorzio umano significasse districarsi tra i campi di forza esercitati da innumerevoli centri di gravità. Nel corso del romanzo viene

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Città tropicale

Uno stato di coscienza alterato può essere causato da tante cose: da una sostanza psicoattiva, ovviamente, e anche dagli effetti dell’astinenza da essa; da una religione che può cambiare radicalmente il modo di vedere la realtà (studi hanno dimostrato che i sentimenti religiosi attivano certe aree del cervello, dunque si può dire che il cervello di un credente fervido funziona diversamente da quello degli altri); ma anche dal caldo opprimente che prosciuga la lucidità mentale. Città tropicale (Polidoro editore), secondo romanzo di Luca Bernardi, è un libro in cui l’alterazione della coscienza (in tutte queste forme, che si alternano e si sovrappongono) permea quasi ogni pagina, come un filtro che distorce in maniera impercettibile ma persistente tutto ciò che i protagonisti (e noi con loro) vedono e vivono.

Si apre proprio con la descrizione di un paesaggio che l’afa sembra trasformare in una allucinazione, fatto di cose che si accumulano una dopo l’altra come apparizioni scialbe: «Correva scalza nel vialetto sotto il cielo bianco tupperware. Sul prato secco una barbona aizzava corvi e due donne salutavano il sole smorto. Rider supini sulle panche giornali stesi in faccia. Signore rigide guinzaglio dietro la schiena e bassotti a lingua fuori tra le ortensie vizze. Sotto un cedro ragazzini in cerchio con dalle casse». A correre scalza è la protagonista Zoe. Segue la descrizione di un incontro con il suo psichiatra da cui viene a sapere che dovrà sospendere il Nivanal, uno psicofarmaco che Zoe assume da anni e che è appena stato ritirato dal mercato. Lo psichiatra fa di tutto per rassicurarla, eppure le sue parole suonano sottilmente inquietanti. E l’inquietudine (alimentata dalle voci allarmanti sul Nivanal che proliferano online) Zoe se la porterà dietro per tutto il romanzo, come se costantemente incombessero su di lei effetti collaterali imprevedibili.

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L’anno del fuoco segreto

«Siamo tutti bambini nel bosco, perduti, abbandonati. Sussultiamo a ogni rametto spezzato, ogni fruscio degli alberi è una mano tesa a proteggerci o forse a ghermirci». Inizia così la prefazione (firmata dai due curatori, Edoardo Rialti e Dario Valentini) di L’anno del Fuoco Segreto. Ciascuno dei venti racconti che seguono trasportano il lettore sul confine di quel bosco e lo lasciano lì, a procedere dubbioso ed esitante, a maneggiare testi senza sapere bene che cosa siano. L’impressione che rimane più viva a fine lettura è probabilmente questa: il disorientamento – che si ripete all’inizio di ogni racconto – del trovarsi senza coordinate immediatamente riconoscibili a cui affidarsi.

L’anno del Fuoco Segreto è un’antologia che è difficile riassumere perché estremamente variegata per stili e contenuti, ma anche per il background e le inclinazioni degli autori coinvolti. Il libro è il frutto finale (per ora) di un fermento creativo che si era già espresso nelle pagine online di Nazione indiana, dove alcuni dei racconti erano apparsi precedentemente. Il titolo è una citazione tolkeniana (è lo stregone Gandalf a definirsi «servitore del Fuoco Segreto»), mentre il sottotitolo è Il novo sconcertante italico: una definizione non inedita (se ne discuteva già nel 2018 su L’indiscreto, in un dibattito in cui presero parte anche alcuni autori che ritroviamo in questa raccolta) per indicare la via nostrana a quel sottogenere della letteratura fantastica chiamato New weird. Ma parlando di generi ed etichette emerge la prima contraddizione con cui una operazione del genere deve confrontarsi: se il weird è un genere che si costituisce a partire dal superamento dei confini dei generi, tentare di definirlo o incanalarlo, anche soltanto per porre i paletti entro cui una antologia deve muoversi, significa rischiare di ucciderne la vitalità. «L’invito al fantastico è il richiamo d’una continua pulsante anomalia rispetto a

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Caccia allo Strega

Con un paragone neanche troppo dissacrante potremmo dire che il Premio Strega è il Festival di Sanremo della letteratura. Ormai più brand immediatamente riconoscibili che premi, eventi più mediatici che musicali o letterati, tendono a far baccano intorno a sé e quindi a calamitare l’attenzione (compresa quella di chi si dichiara non interessato). Offrono infiniti spunti per commenti, riflessioni e – soprattutto – polemiche. Sono, del resto, proprio le polemiche la più indubitabile dimostrazione della rilevanza che queste istituzioni hanno assunto. E se spesso si dice che Sanremo è occasione privilegiata per osservare uno spaccato esaustivo della cultura popolare italiana, lo stesso può valere per lo Strega per quel riguarda il mondo letterario-editoriale.

Non per nulla un critico e studioso acuto come Gianluigi Simonetti ha scelto il premio Strega come terreno su cui edificare un interessante saggio di sociologia della letteratura: Caccia allo Strega. Anatomia di un premio letterario, edito da Nottetempo. Simonetti non è nuovo a questo tipo di approccio allo studio letterario: nel 2018 aveva già pubblicato per Il Mulino La letteratura circostante, un libro che tracciava una mappa della letteratura italiana contemporanea, non con l’obiettivo di individuare le migliori opere degli ultimi anni, bensì con l’intento di analizzare la produzione media (e talvolta anche mediocre) ma di successo, individuarne le tendenze, per capire perché oggi si scrive quello che si scrive e si legge quello che si legge. Nella consapevolezza che per rispondere a queste domande non ci si può limitare alla ricerca e allo studio dei valori letterari (spesso e volentieri latitanti, del resto) delle opere prese in considerazione, ma bisogna anche guardare a quello che sta attorno ai testi.

In Caccia allo Strega, è il premio letterario più famoso del nostro Paese a essere preso come osservatorio privilegiato per portare avanti una riflessione su quelle

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La luce naturale

In uno dei passi più memorabili di Pastorale americana di Philip Roth si legge: «Rimane il fatto che, in ogni modo, capire bene la gente non è vivere. Vivere è capirla male, capirla male e male e male e poi male e, dopo un attento riesame, ancora male». Ecco, La luce naturale, l’ultimo romanzo di Marco Archetti, uscito per Mondadori, è una storia di gente che si capisce male e che continua a capirsi male. Tra le sue pagine incontriamo i tre protagonisti (i fratelli Flavio, Tiziana e Gabriele Calore), continuiamo a saltare tra i loro punti di vista e così facendo li vediamo moltiplicati: per come vedono sé stessi, ma anche per come si vedono reciprocamente. E nella mente di ciascuno gli altri vengono puntualmente non capiti, fraintesi, ridotti a caricature grottesche. E in fondo manca pure la volontà, lo sforzo di provare a capirsi: tutti troppo presi da egoismi e velleità sterili per tentare un passo in direzione dell’altro.

Il motore immobile (letteralmente) intorno a cui si muove questo dramma delle incomprensioni è la madre dei tre fratelli Calore: Elvira, che durante una vacanza a Eraclea, località marittima vicino Venezia, è colta da un malore che dovrebbe lasciarle pochi giorni di vita. Al capezzale dell’anziana signora, incosciente nel letto dell’albergo frequentato ogni estate per una vita, si radunano i tre figli a condividere malvolentieri un’agonia che si prolunga indefinitamente. Ciascuno porta con sé le proprie meschinità: Flavio è un attore teatrale di scarso successo, pieno di rabbia e frustrazione; Tiziana è incastrata in una vita insoddisfacente e in un matrimonio infelice e cerca la rivalsa passando da un innamoramento non corrisposto all’altro; Gabriele, tra problemi di donne e di denaro, sembra aver fallito tutto quello che poteva fallire, eppure conserva una ingenuità quasi infantile. Buona parte delle cose

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