Crapalachia

«Sarà un banchetto di morte e avrà un sapore delizioso.» Così scrive ad un certo punto Scott McClanahan, noi potremmo benissimo sostituire «banchetto» con «romanzo». In effetti, non è un romanzo che parla molto, piuttosto comunica un senso di morte: il plot è trascurabile, i personaggi possono passare sottopiano; ma il tutto ha un sapore delizioso. Ciò che tiene incollati alla pagina è il ritmo, la voce incalzante, pneumatica, prevedibile sintatticamente ma imprevedibile nei contenuti. Fa ridere, sa giocare, sa commuovere, sa indurci alla riflessione.

La prima parte del libro non è altro che la storia del protagonista, un pischello che impara a conoscere la morte dei suoi cari. Non si può parlare di eventi, quanto di avvenimenti, poiché trascurabili nella loro intima natura di causa-effetto. Tutti i personaggi, tranne l’Io, sono malconci, malinconici, mal-conciati, difettosi, tremendamente decadenti, liminari, a un passo dall’ultimo respiro. C’è un’estetica del corpo che non funziona bene, che dev’essere romanticamente brutto o guasto per farlo funzionare narrativamente. Anche da morti i corpi appaiono deformi. Da vivi c’è una lunga descrizione su quanto il corpo sia storto; da morti c’è un passare oltre, una descrizione taciuta, talvolta uno splatter semi-invisibile, un’indicazione che rassicura il lettore: non solo da vivo, tranquilli amici, anche da morto il corpo è amorfo, giustamente guasto e senza più nessuna illusione alla vita con un corpo bello e funzionante: «il buon Dio sarebbe venuto presto a prenderci e avrebbe portato via i nostri corpi di merda». La morte, però, non ha sembianze tragiche o maligne; oltre ad essere una sorta di liberazione, viene continuamente sfidata, provocata, sfanculata, derisa. Gli esempi sono molteplici, i più rilevanti forse sono la ragazzina che suona peccaminosamente il violino durante la veglia funebre; le foto scattate al feretro; quando il protagonista esce con una ragazza e per flirtare le dice se vuole vedere un video, che video? risponde lei: «Oh, è il video di mia nonna che muore». Lei scosse la testa. “Cazzo, no. È inquietante”. Poi mi chiese se quella fosse la mia idea di romanticismo.

Non si può teorizzare un romanticismo macabro poiché il gusto è esteso alla condizione e alla miseria umana, alla povertà materiale e culturale e spirituale che anima i personaggi. Solo acquisendo la vera proiezione e percezione della vita carnale, provando quindi, tenerezza, umiltà, senso di impotenza: solo così si può amare. Tutto è tragico essendo anche umano: «Zia Mary era chinata sul corpo di Nathan, piangeva e gli stava dicendo: “Combatti, Nathan. Lotta”. Poi uscì dalla stanza. Io mi misi ai piedi del letto e parlai a Nathan da dentro la mia testa, gli dissi: No, Nathan, vai avanti e muori».

Anche la morte si fa amare quando mette fine a un’esistenza esasperata.

«È una storia piena di morte e del morire, del vivere e della vita, di tette e culi e palle e cazzi e fica. È una vecchia, vecchia, vecchia storia.» Scrive McClanahan, anche se, in realtà, di quegli organi genitali non c’è niente, non ne rimane niente. Thanatos non è bilanciato e smorzato dall’Eros. La morte non è un pensiero incombente, di tanto in tanto: copre tutto, è l’unica costante in un mondo di variabili. Quindi succedono tante cose: Bill si innamora e poi dimagrisce; lo zio Nathan si fa iniettare sei lattine di birra attraverso il tubo dal quale si nutre; si piscia scuola; a San Valentino si portano i fiori alla persona sbagliata ecc. Ma quello che succede veramente, quello che resta e sorregge la trama, è la fottuta morte, accompagnata dai sentimenti che ci girano attorno.

La posizione liminare tra vita e non-vita crea un grottesco esilarante, l’esempio più evidente è quello della nonna che dice di essere sopravvissuta al tumore e va in giro mostrando la spilletta quando in realtà la nonna s’è fatta asportare una massa benigna che avrebbe potuto essere cancerosa.

E si respira quel sentimento un po’ comune nei vecchi ma ben camuffato, ben religiosamente rispettato, e cioè, vivere la vecchiaia come fosse una gara, solo che non vince chi arriva primo (chi muore prima) ma chi arriva ultimo (chi muore dopo, sarebbe bello dopo tutta l’umanità, ma solo nel ristretto giro dei conoscenti). Io l’ho sempre visto, quel sentimento gretto, come sdrogo e mix di perfetta verità sulla natura umana: fregarsene della morte altrui finché vivo io, anzi, la tua morte mi sprona a non morire, la tua morte mi dice che sono sano e forte e giovane. Quindi, la morte scampata, in un contesto come questo, dove le persone che hanno veramente il tumore, muoiono veramente di tumore, la nonna va in giro trionfante, 1-0 palla al centro, senza mai aver segnato, senza mai la scesa in campo della morte. Fa ridere perché McClanahan va alla ricerca proprio di questa situazione qui, del grottesco; ma subito dopo il quesito è spietato: perché sto ridendo? Non dovrei farlo.

Come accennavo prima non c’è l’eros a liberarci dallo scontro fisico e prepotente che il lettore, la lettrice, fa con la morte. Però, nella seconda parte del romanzo, c’è Bill, Little Bill (previdente Sara Verdecchia a non tradurre i nomi dei personaggi, lasciando quel tocco d’orecchio americano, quel tocco d’infanzia perduta nei nomignoli), che si innamora di Janette. La formazione amorosa è sottile, avviene per una certa idea d’amore, perché Janette continua a dirgli che è impegnata il giorno dopo e non può incontrarsi con lui, e loro due mai si vedono (se non da dietro la finestra, Bill la spia) e mai si parlano (se non da dietro la cornetta telefonica). Insomma, siamo stanchi del romanzo di formazione europeo, che la crescita passa attraverso il sesso e la deflorazione. Qui la crescita passa per la morte, esiste la giovinezza sì, esiste l’amore in giovinezza sì, la vita diventa più interessante per il semplice fatto che non si è più soli, che non si pensa più alla morte, ma si pensa a Lei (o a Lui).

Abbiamo intuito che i personaggi di questo romanzo non sono anime pie, e scopriremo, alla fine del racconto-resoconto il punto massimo del tenore, della tensione, dei personaggi. Eppure non c’è disprezzo, non riusciamo a provare antipatia, non riusciamo a condannarli per quello che fanno e dicono. La verità non ha scrupoli, anche il cinico ci appare leale, sincero: profonda coscienza umana, nel torto e nella ragione. Ne è l’esempio quando: «Venerdì sera Bill e Lee sarebbero usciti a bere birra e volevo esserci anche io. Non volevo deluderli e una parte di me desiderava che lei morisse. Sapevo che i morenti erano egoisti, proprio come lo erano i vivi».

Dopo l’idea di dio che ci viene mostrata, ne siamo persuasi. Se l’uomo è immagine di dio, allora si è egoisti, suscettibili, astiosi, irremovibili dal peccato originale. Dio è un ubriacone o un bambino col moccio schiaccia formiche, ci viene detto. Guardiamo le altre formiche essere schiacciate senza una valida ragione per tutta la durata del libro. Se la morte è volontà di dio, a me dio, dopo un po’ sta sul cazzo. C’è uno scambio di email tra dio e Bill: «Voleva che sapesse che lui non era davvero pigro, era solo stanco. Che si era reso conto che era stato tutto un terribile errore – il mondo. Dio diceva di aver capito che aveva creato tutto senza un progetto chiaro in mente. Lo aveva fatto perché si sentiva solo, ecco tutto. Era così solo e adesso aveva perso il controllo. Diceva di aver capito di essere ateo, e che solo un vero ateo crede in Dio».

Ѐ come se dopo questa dichiarazione ci venga data una giustificazione, o meglio, una diretta corrispondenza col nostro signore dio. Non siamo altro che lui, ma non come lo vede la Chiesa, il cattolicesimo, la storia; ma come lo vedo io, come lo vede Scott McClanahan.

Si ha un cortocircuito quando la voce del protagonista ancora giovane si lascia annientare da quella dell’autore, adulto. A volte crea straniamento efficace, altre meno.

Ma poi arriviamo quasi alla conclusione quando il protagonista è grande e fa l’insegnante. Da qui capiamo veramente il senso del testo: non è un’autobiografia (perché non c’è una crescita, una progressione lineare verso l’adultità), è un’autobiografia di un luogo (perché la storia riprende quando il protagonista torna nel luogo, il quale aveva lasciato per viaggiare e studiare), è un’autobiografia di morte. Il resto copre una piccolissima parte, sempre interrotta o disorientata da elementi legati a qualche morte, che sia intima o sconosciuta, lo zio Nathan o un omicidio di una donna anonima.

La terza e ultima parte, infatti, esplicita questo senso di raccontare la transizione. A parer mio non è necessaria, allontana e trasgredisce la norma lineare: da storia individuale (quantomeno familiare) si passa a quella collettiva; si affronta il disastro ambientale, la rottura di una diga e l’inondazione; ma sempre legato alla morte (di centoventicinque persone); non c’è un impegno civile coscienzioso, non c’è redarguimento o condanna; c’è un progredire esanime di corpi esanimi, un’estetizzazione cadaverica.

L’appendice, la quale chiude il romanzo, è un testamento poetico di grande importanza, imprescindibile. 

Siamo travolti, ultimamente, da questa ondata di autofiction, e si tende a pensare che quello che leggo lo debbo certificare per vero. Non è assolutamente così: intanto perché non ci deve interessare molto la vita dell’autore, elevarlo a mito, la sua vita è straordinaria, voglio farmi i cazzi suoi. Ma anche perché la memoria è una gran birichina: inganna, gioca, taglia, aggiunge, sovrappone, elimina. Non sappiamo mai quando ci consegna la verità, più passa il tempo e più è così. Infatti, l’autore, si prende questo spazio per dichiarare il suo metodo: guardate che questo e quello non sono fatti reali, quel nome è inventato, quel personaggio è/sono due persone che ho conosciuto fuse nello stesso carattere, non è vero che saltavo scuola ci andavo sempre. Mai la memoria è sincera, ancor di più se si scrive. La memoria, in narrativa, non restituisce un valore bensì una funzione, che tende all’artistico, muove ad una legittimità artistica. Quindi l’autofiction è un po’ la scoperta dell’acqua calda, non dobbiamo essere feticisti di esistenze altrui (attenzione però, non sto dicendo che sia necessario il plot, questo romanzo m’è piaciuto proprio perché gioca con la memoria e non utilizza un plot cagnesco e recintato: sto dicendo; diffidate dalla verità assoluta perché mai lo è), né romanticizzare protagonisti e personaggi, perché è lo stesso autore che lo fa (il protagonista è l’unico sano in una cosmografia di malaticci, chissà perché). Spesso, la realtà delle cose, non è romantica; bisogna cambiare fatti e fattacci. La letteratura è malleabile, come il cinema in fase di montaggio, si decide cosa prendere e cosa no. McClanahan ha scelto di prendere il grottesco, non lasciarlo nella grotta dell’ippocampo.

Narrativa | Crapalachia | Scott McClanahan | Pidgin | 192 pagine

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