Se la morte (non) ci fa pensare

Bitetto sceglie di sollevarsi dal piano terreno dei suoi personaggi, si prende la libertà di giudicare i comportamenti umani portando anche noi su un piano superiore, con il pretesto di una statua di Padre Pio che si fa osservatrice, narratrice delle storie che vede svolgersi sotto i suoi occhi, delle preghiere che sente rivolgersi, nel giardino privato delle onoranze funebri dove è stata voluta dal suo proprietario.

Statua, dunque, non santo. Feticcio, non verità, pezzo di roccia che finisce per trasformarsi per mano dell’uomo e ad atteggiarsi per quello che l’uomo l’ha designata: santo, appunto, ma Santo niente, Sacro niente.

Il libro, uscito per Voland, è introdotto da una nota di Leopardi sulla disperazione e sull’onnipotenza, dunque sulla vanitas, che è difatti il tratto ricorrente, sia dei personaggi coinvolti in questo excursus che di narrativo ha tutto e niente, sia della situazione in sé, dato che le risposte del santo non esistono, una statua non può rispondere, anche se a questo discorso ci sono due eccezioni. Se la gran parte dello spazio del libro è dedicato alle storie che pochi personaggi che si susseguono senza un filo logico che le unisca ci raccontano, ci sono però altri due personaggi, Antonio e il ragazzo, che ricorrentemente entrano in relazione, inevitabilmente, con la statua, il primo perché se ne deve occupare per tenerla pulita, il secondo, il figlio del proprietario della ditta, un ragazzo sveglio e curioso e carico di domande esistenziali alle quali il santo prova a rispondere e alle quali è lo stesso ragazzo a cercare di disporre di ipotesi interpretative della vita, dell’esistenza, della morte.

La morte è il tema principale in Sacro niente, quello certamente più in evidenza, ma subito Bitetto la colloca nelle sue radici: la statua di Padre Pio, così frequente nella sua Puglia dove i suoi rituali e una certa immobilità richiamano, forse in modo un po’ didascalisco, attraverso personaggi e situazioni tutto sommato ipercodificati, ma non meno realistici, a La ferocia di Lagioia, da cui però Bitetto si allontana perlomeno come impianto narrativo. Mentre l’invenzione in Lagioia era costante, qui, una volta svelato il pretesto, essa si sottrae per lasciare spazio a riflessioni più generali, al raccontare per raccontare. La morte, quindi, che però va senz’altro messa in relazione, per scelta precisa qui del suo autore, con il tipo di personaggi scelti, quelli che raccontano le loro storie, tutti accomunati dalla complessità dei rapporti con i loro genitori o i loro figli, con le loro famiglie, tanto che si potrebbe affermare che Sacro niente è per prima cosa un libro sul rapporto padri-figli, che a ben guardare si può individuare come una, o forse la principale causa dell’immobilità culturale di un Sud allergico al cambiamento, stereotipato in posizioni sociali che sembrano infierire sui rapporti umani e spegnere ogni desiderio di libertà umana.

Certo è che i nostri figli esprimono un altro tipo di insolenza, noi ambiamo a comandare il nostro pezzo di terra, loro comandano solo sé stessi. Noi ci siamo imposti una disciplina, e tramite questa abbiamo ordinato il mondo, secondo leggi effimere – direbbero loro – ma, come d’altronde dimostriamo giorno per giorno, in grado di funzionare ancora.

Le parole dei protagonisti sono secche, nette, definitive, ma chiare solo a loro stessi, alle convinzioni che li sorreggono e che vengono smentite al primo soffio, che vengono distrutte dalle realtà che li uccidono, li demistificano, anche se incredibilmente quelle convinzioni rimangono inalterate a mostrare la triste condizione del genere umano. È la compassione infine che la statua manifesta verso ciascuno di loro, a cui Antonio assomiglia così tanto, essendo il solo a poter vedere ogni cosa che accade come testimone, ugualmente lontano e ugualmente empatico, verso la statua e la sua missione. Entrambi sospendono ogni giudizio, sanno che i comportamenti umani non sono nulla, senza la compassione e il perdono, vere radici dell’essere, e Bitetto è bravo a mostrare le radici della statua, a procedere in parallelo, a far parlare la statua delle proprie origini, la sua memoria degli scultori che le regalarono una forma.

Il processo, letterario, di umanizzazione della statua, gioco postmoderno e antico al tempo stesso, si compie con il dialogo fra statua e ragazzo, che è di fatto, la vera natura filosofica del romanzo.

Credi che io giudichi negativamente l’illusione. A me non interessa, sebbene gli uomini credano che la volontà divina sopra di me operi solo a fin di bene. Potete illudervi quanto volete, e potete immaginare un orizzonte di cosiddetto progresso. Il conflitto sorge sempre in voi stessi, perché siete voi che postulate la verità, e siete voi che con la vostra coscienza entrate in conflitto con l’illusione.

In questo modo la presenza del ragazzo chiude il cerchio: presentendo il destino impostogli dal padre, il ragazzo cresce accanto alla presenza della morte, per scoprire alla fine che buoni e cattivi, per quanto questa divisione possa valere, provano dolori simili, e allo stesso modo padri e figli si interrogano sulle medesime cose.

Fra i due si instaura un vero e proprio rapporto maestro-allievo, lo stesso che come un filo rosso permea tutto il libro, tutte le situazioni raccontate, tutte fallimentari, tranne appunto questa, basata sulla differenza fra carne e pietra, fra vita e oggetto, che sola può garantire l’assenza di pretese, la possibilità di rispondere, l’ascesa e il declino dell’illusione, l’esistenza stessa della speranza.

Narrativa | Sacro niente | Giovanni Bitetto | Voland | 256 pagine

Alessio Barettini nasce a Torino nel 1976, studia Lettere a Siena e poi torna a fare l'insegnante. Adesso lavora in un liceo artistico della città. Quando non è in classe, legge, fotografa, ascolta musica indie e suona la Fender Mustang. Ogni tanto scribacchia, più raramente scrive. Non ha mai suonato al Festival di Reading, ma c'è stato due volte.

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