Nella tradizione italiana dei sillabari, Parise, e in parte Savinio con la sua Nuova Enciclopedia, ci avevano mostrato quello che Sinigaglia ha colto in pieno: un sillabario non è un semplice incasellamento in categorie definite (in questo caso le lettere), ma uno spazio di libertà dove comporsi e comporre un ordito a piacimento. Quelli sono stati e sono libri che sistemano, mettono in ordine, vengono incontro allo smarrimento congenito di ogni lettore. Qui il destinatario dei benefici di questa pratica, come apprendiamo sin dall’introduzione, è lo stesso autore. Viene addirittura in mente, leggendo il Sillabario all’incontrario (edito da TerraRossa), che il criterio, portare avanti un’esplorazione à rebours, debba inevitabilmente condurci comunque, imprescindibilmente altrove, e quindi oltre. Oltre è infatti la lettera O scelta da Sinigaglia proprio per marcare una differenza fra un “non qui” e un “più lontano”. Anche Lontano è un’altra delle scelte di questo sillabario diffuso. Il suo titolo alternativo potrebbe essere “Guida ragionata per smarrirsi”.
«Ciò che questo libro ha di insolito è il fatto di essere nato da una vera e banale malattia del corpo, che soltanto in un secondo tempo si è trasformata in una malattia dell’anima da curare con la scrittura.»
Infatti non scrivere per comprendere la propria natura è il punto su cui soffermarsi, ma la scelta della metodologia da adottare a essere uno svelamento che si costruisce nel suo stesso scriversi.
In altre parole il Sillabario si fa modo di parlare di sé, va a comporre una sorta di trama, il pezzo ragionato di un’autobiografia. Come già nel Pantarèi, il primo romanzo di Sinigaglia e in un certo senso nell’Imitazion del vero la tessitura si fa tramite di una riflessione metaletteraria, di certo specchio di una condizione terapeutica della scrittura.
Il paradosso resta uno dei tratti più ricorrenti della sua letteratura, del folletto dispettoso della narrativa italiana perché ama i divertissement della lingua, i motti di spirito, l’arguta ironia. Ricorda un sir inglese, Sinigaglia, ma con la profondità di uno scrittore di razza, uno di quelli che dicono tranquillamente che i loro romanzi conducono il gioco, disegnano la mappa per decidere dove andare e poi leggendo si scopre che è proprio così che è accaduto, che lo scrittore si fa strumento per.
L’autore si racconta, nella sua casa in Sardegna, nella sua quotidianità, partendo dall’analisi del reale quotidiano. Siamo negli anni 1996-97, e solo oggi queste lettere trovano la pubblicazione, grazie all’infaticabile lavoro di Giuseppe Girimonti Greco, come ci dice lo stesso Sinigaglia nei ringraziamenti che chiudono il volume.
Un racconto autobiografico che è un movimento quasi di catabasi, di discesa, in cui fuori da ogni ambiguità l’ultima voce, la A, è quella di Aldilà. Senz’altro siamo di fronte a una discesa dell’autore verso sé stesso, una discesa graduale, che attende gli eventi per evolvere. Le prime voci sono quelle di superficie, “la cornice esteriore, all’interno della quale si esita per il momento a scavare”. Dalla lettera P di Padre si sblocca la memoria, il discorso scivola all’interno, al sé. Da qui si incontrano i sospetti da annotare sul taccuino del detective-scrittore, che da essi sviluppa la sua voce che si fa guida, che delinea i punti di svolta, fra cui quello della lettera G, di Giallo. Dunque in un momento che coincide con una depressione che lui stesso faticava a riconoscere come tale e a dichiararne la natura e di cui, per disfarsi, sente di dover procedere con la cautela del detective che per portare a compimento la sua dedizione sa di non poter escludere nessuna pista. Una lunga riflessione sottende questo ragionamento. Sinigaglia si confessa appassionato lettore di gialli. Giallo è colore preferito, colore del sole e occasione per indirizzare le lettere precedenti rimaste ancora prive di un riferimento. Siamo partiti dalla Z, mancano 7 passi per scoprire il colpevole, il mistero che soggiace a questo libro che finalmente si rivela (anche) come tale, a questo pezzo di vita ancora incompiuto. C’è bisogno di vagliare, di scandagliare. Sinigaglia ricorda qui il metodo di Conan Doyle e della Christie, autori di romanzi dove non la morte è protagonista, ma il detective con il suo spirito deduttivo. Ma il giallo è colore della follia, si dice, che accomuna le menti di assassino e investigatore molto più di quanto appaia. C’è dell’altro, nel rimosso dell’autore (e non a caso Rimosso e Freud sono altre due lettere che vengono a costruire uno dei perni del multiforme elenco del libro), c’è Edgar Allan Poe, amato in gioventù e mai più ripreso, con quei Delitti della Rue Morgue che, lui nota, contraddicono i precetti classici della deduzione pura: Morgue vuol dire obitorio e nel racconto di Poe l’assassino è un orango tango. È l’apoteosi del paradosso, un racconto che gioca con i lettori fin nel titolo, come lo stesso Sinigaglia spesso fa, creando varchi, salti, nella consapevolezza delle cose. Il fine ragionatore Dupin, il deduttore assoluto a cui aspira l’ésprit de finesse dell’autore si scopre qui più simile a Simenon, il cui Maigret indaga da una linea per finire stravolto e affascinato dall’assenza netta dei confini, in storie dove criminale e indagatore, due specchi della stessa nemesi camminano idealmente su due sponde opposte del fiume. Non si incontreranno mai, ma sono già accomunati dal rifiuto dei ruoli precostituiti, un presupposto che appare ineliminabile per scoprire di sé quel che gli altri non potranno dire mai, chiusi nelle categorie dei ruoli a cui per natura l’autore si rivela refrattario e incongruo.
«Mi sono sorpreso a domandarmi che senso avesse ed abbia la G di Giallo nell’economia di questo sillabario e del lavoro che sto facendo su me stesso. In conseguenza di questa sorpresa, e di queste domande, sono stato fermo un’intera settimana, incapace di trovare un filo d’F cui affidare la cruna del mio ago per riprendere a cucire. Penso che sotto ci sia qualcosa di losco.»
Stando così le cose, l’analisi raffinata delle ultime lettere del sillabario segneranno un limite invalicabile della conoscenza, l’ombra contraria di ogni certezza, come in una rete pirandelliana di situazioni e di contrari sempre possibili e pertanto infiniti. C’è Pirandello, in questi pezzi cristallizzati di narrativa dello svelamento, ma anche Svevo, se si pensa che la dedica di questo sillabario è al medico dell’autore “che prescrisse”, si legge in apertura, buoni consigli fra le conversazioni, certo, oltre alle ricette.
C’è poi qualcosa di calviniano, dell’OuLiPo, di Borges, in questo modo di raccontarsi, un pot-pourri di giocosità che si esprime comunque nell’ampio periodare di una narrativa dell’anima, della memoria, della ricerca dell’io che si abbandona a strade secondarie, creando una continua oscillazione fra serio e faceto, gioioso e attentamente pensato, che sempre chiama ad altro, in un tempo che non si compie mai nel suo dirsi, ma che si sfalda non appena è pronunciato.
Una distanza che si ritrova certo nello stile, nel tono generale della scrittura, persino nei dettagli linguistici: il segno di punteggiatura prediletto dello scrittore sono i due punti, se ne trovano in grande quantità, sollevando la narrazione dal dovere di arrivare o di chiudersi in una definizione. I due punti creano una sospensione che se iterata si fa ritmo e lascia immaginare le differenze, generando una proliferazione di significati che resta sorniona nella sfera del possibile, eterogenesi dei fini letterari attraverso il lessico e l’ironica capacità combinatoria delle parole. L’indagine si approfondisce in differenti luoghi, per esempio la lettera H di Humour.
«Ormai andavo a scuola, seppur da poco, e le parole avevan preso ad avere per me, ad un tempo, più senso e più mistero: c’erano parole che non si discutevano, parole addirittura gonfie della cosa che indicavano: “bue”, per esempio, e “mucca”: bue e mucca definivano così perfettamente il bue e la mucca che si capiva benissimo perché il bue e la mucca si chiamassero così: come altro si potevano chiamare?: questo tipo di parola mi stimolava irresistibilmente alla recitazione (…) saper leggere queste parole, e saperle scrivere, rendeva le giornate decisamente più vivaci di quanto fossero mai state: altre parole m’incuriosivano perché erano sbagliate: “gesso”, che razza di parola era, gesso?: una parola così dolce, così morbida, così grassa per un oggetto coì secco, così magro.»
In questo modo Sillabario all’incontrario si rivela nelle sue architetture raffinatamente progettate. Così la prima voce, la Z di Zoo dove Sinigaglia racconta degli animali domestici del suo presente si incrociano con la penultima, rivelatoria lettera B di Bambini, dove è il passato dell’autore a suggerire una soluzione al caso e allo stesso tempo a negarla. O la I di Inedito che insieme alla S di Silenzio e alla D di Dilazione compongono un’autoriflessione esistenziale e letteraria, accompagnata da un altro piano, per così dire psicoanalitico, con la R di Rimosso e la F di Freud, muro portante di un maître-à-penser che ragiona profondamente sulla propria condizione. Sono grandi questioni, l’Eros, il Padre, il Tutto, a manifestarsi, ora come miraggi ora come improvvisi svelamenti che appaiono l’esito di un allucinato pomeriggio estivo. In questo senso si accentra il dato autobiografico, con i personaggi via via raccontati o ricordati a costituire una sorta di sfondo indistinto: Clara, la donna delle pulizie, la zingara, la moglie Sara, il figlio Umberto, Carlo Uno e Carlo Due, il cameriere Service, la famiglia di un tempo e le conquiste collezionate e perse da adolescente. Sono tutte figure indagate nel rapporto di scambio di amore, di nutrimento materiale e spirituale che l’autore intesse con ciascuno di loro, finendo per essere lui stesso una parte indagata del tutto, attraverso differente lenti, solo un tassello che è al contempo luogo di destinazione e luogo di partenza delle riflessioni del sillabario.
Narrativa | Sillabario all’incontrario | Ezio Sinigaglia | TerraRossa | 236 pagine
L’immagine è un particolare della copertina del libro.