Il bisogno e la necessità

Demetrio Paolin torna in libreria nella serie Tetra con Il bisogno e la necessità, un testo che esplora ancora una volta tematiche care allo scrittore torinese: la morale, la morte, l’Io, spingendosi ancora più oltre, se possibile, rispetto ai suoi lavori precedenti, in modo, si potrebbe dire quindi, enfatizzato, più esposto. Sin dal titolo si intuisce di avere di fronte un intento di esplorazione dei due concetti che hanno uno speciale punto di contatto sia con la filosofia sia con la quotidianità, e la scrittura di Paolin è in questo senso analitica, fredda, ai limiti dell’ossessività.

Del resto però l’autore dimostra un senso di spaesamento, di timore del sapere e dell’essere allo stesso tempo. La sua presenza è una partecipazione dal buco della serratura, un restare sulla soglia che si svela più volte lungo il testo e che trova forse il suo compimento nel personaggio di Demetrio, una figura del tutto irrisoria ma in un certo senso determinante, un inserto ambiguamente autofinzionale in un personaggio giovane che assume le sembianze di Angelo della Salvezza: la salvezza, del resto, altro punto cardine della poetica di Paolin, da sempre interessato al complesso e fertile rapporto fra Dio, morte, vita, dolore e ovviamente letteratura.

Paolin pare voler giocare con questo sguardo defilato sin da subito, con questo sottrarsi dell’Io. Il testo si apre infatti curiosamente con un verbo essere alla terza persona singolare immediatamente seguito da una lunga parentesi descrittiva di elementi che ritroveremo più oltre. Alla chiusura della parentesi ci aspetta però una sorpresa, poiché troviamo le parole «questa cosa» scritte in corsivo, ma ancora seguite da una seconda, lunga parentesi. La sospensione, lo spostamento del senso, l’attesa, ecco alcuni degli effetti di questa scrittura. E ancora il depistaggio continua, poiché le riflessioni contenute nella seconda parentesi riguardano più che altro scelte linguistiche, a segnare una caratteristica che forse Balzac avrebbe definito monomaniacale. Non pago (mai pago), alla chiusura della seconda parentesi, finalmente un nome a definire un campo, anche questo in corsivo: la vecchiaia, anch’essa seguita da una parentesi che introduce un personaggio, il nonno, che muore appunto nel suo orto, smentendo di fatto le parole stesse del narratore che ragionavano sulla vecchiaia.

C’è un continuo mettersi contro, che l’autore trasferisce al personaggio principale, Antonio, un uomo che l’autore ci presenta da subito in una posizione carica di vergogna, incapace cioè di trattenere un proprio bisogno fisiologico mentre è in auto. L’uomo, però, sembra essersi messo da solo in una posizione problematica.

«La sua mente elabora quello che è successo dalla fine. La porta che si chiude con Luisa che dice: Me ne vado, tu metti a posto le cose e poi vedremo. Lui prima le aveva detto: Cosa fai? La sua domanda era una risposta alla domanda precedente: Come puoi essere così superficiale?»

Antonio, sindacalista, sembra aver scelto ogni possibile opzione peggiore per la propria vita, cosa che lo conduce alla separazione ma anche oltre, in una spirale di autolesionismo mascherato da necessità che l’autore giustifica e tenta di comprendere come fenomeno, come origine del male, osservando e facendoci osservare in anticipo, in modo onnisciente. A tratti sembra esserci, e in effetti è presumibile pensarlo, anche del sadismo nei confronti del suo personaggio, meccanismo di autodifesa o desiderio di testimonianza oggettiva, cercato non solo nei contenuti ma nello stile: «e anche se fuggi le Erinni ti trovano e ti si piazzano davanti e ti grida Che cazzo vogliono dire ventimila euro. La colpa sopravvive, la vergogna della colpa sopravvive. Che (la vergogna) cazzo (la colpa) vogliono (il peccato) dire (il male) ventimila (l’inferno) euro (la morte)».

In Antonio, siamo dentro l’Io di Antonio, infatti, assistiamo a una lotta stranamente pacifica fra un deterioramento del suo stato di salute e le accuse di Luisa di aver perso ogni senso, cosa che la spinge ad andarsene a causa di alcune cartelle esattoriali dimenticate, forse volutamente. All’uomo rimane la necessità di sistemare le cose, ma farlo in un mondo che sembra non avere punti di contatto con lui sembra impossibile. Antonio resta solo con la sua colpa, e in ambito fiscale ammettere la colpa non riduce il danno così come in amore. Durante il dialogo con l’impiegato dell’Agenzia delle Entrate, la mente di Antonio esplode in riflessioni che innalzano la prosaicità del quotidiano a un livello disorientante e teologico: «la colpa è mia, la colpa mi appartiene, la mia colpa non è il mio male, il mio male sarà lontano da me».

Le riflessioni si fanno più intense, si fanno ossessione, mentre Antonio prosegue la sua vita. La scena cardine del lungo racconto è quella al tavolo della contrattazione sindacale, quando i suoi pensieri si fanno visione (procedimento questo già noto nella produzione dell’autore) e il carico mentale si assomma a un carico fisico che lo porta a uno svenimento preoccupante, che sembra l’esito di una complessa analisi sull’impossibilità della felicità e sui reali bisogni dei lavoratori.

Ancora una volta Antonio usa la propria condizione per ottenere uno sconto sulla pena, un’amnistia dell’anima, ma la salvezza non pare sfiorarlo neanche quando chiede a Luisa di tornare insieme a lui, manifestando così un bisogno che viene disatteso dalla necessità di lei di restargli lontana. La felicità resta solamente un miraggio, l’oggetto di un patto faustiano che fa breccia nella narrazione a instillare il dubbio che Antonio possa sciogliere i nodi della sua situazione e che assume poi la forma di un ultimo personaggio, anch’esso ambiguo, un usuraio a cui Antonio si rivolge per necessità, la necessità che «regola la vita morale». Eppure la necessità che interessa Antonio non è la necessità del mondo, ma un’altra, un’interpretazione che sposta il ruolo del bisogno a mero comprimario della vita, che ne sovverte il significato in seguito a una decisione razionale, fredda e analitica.

È proprio questo elemento a fornire la chiave ultima che concerne la propria natura. In ultima analisi è infatti questo lo spettro da indagare, l’oggetto che siamo costretti a guardare. La necessità è allora lo strumento di paragone, vicino semanticamente ma lontano, diverso dalla complessità del bisogno, il cui processo intellettuale necessario per indagarlo si erge come scoperta del reale, decifrazione filosofica, teologica e sociale allo stesso tempo, punto ideale (ma forse sarebbe meglio dire anti-ideale) dell’Io e delle ondate che cercano di destituirlo dalla sua funzione.

«[…] e così ho deciso di costruirmi da solo la mia infelicità, di distruggere la mia esistenza, per essere all’altezza di ciò che sono, perché ciò che io sono è l’infelicità […]»

Se l’inizio di Il bisogno e la necessità fa sentire l’eco biblica di un verbo iniziale che produce il senso dopo l’origine, il finale è invece esplicitamente un richiamo alla morte di Gesù, la vita dunque come un sacrificio necessario, la letteratura come il bisogno che lo esplica.

Narrativa | Il bisogno e la necessità | Demetrio Paolin | Tetra | 88 pagine

Alessio Barettini nasce a Torino nel 1976, studia Lettere a Siena e poi torna a fare l'insegnante. Adesso lavora in un liceo artistico della città. Quando non è in classe, legge, fotografa, ascolta musica indie e suona la Fender Mustang. Ogni tanto scribacchia, più raramente scrive. Non ha mai suonato al Festival di Reading, ma c'è stato due volte.

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