Il segno della differenza

Mordente, taumaturgica, roboante, la scrittura di Alessandra Saugo che in Come una santa nuda ci lascia una testimonianza di sé forte e sentita, che va ben oltre il romanzesco, appoggiandosi con fiducia e incoscienza sulle spalle del grande amore per la letteratura. Edito da Wojtek, questo è il lavoro postumo di una scrittrice che, con la sua parabola letteraria di uscite nell’ombra, il suo nome in sordina, offre invece una voce tonitruante, schietta, allergica alle ipocrisie, ai fronzoli, ai compromessi.

«Perché questi freddi e allegri serpenti, John, entrano in contatto solo con produzioni culturali intellettuali. Si nutrono di questo sterco intellettuale e culturale, la loro vita non si nutre di nient’altro. Non di sentimenti, non si prendono cura di nessuno.»

Saugo parla voracemente di sé, e del femminile e del patriarcato, della letteratura, dei rapporti d’amore e delle nostre virtù, senza concedere sconti, senza reticenze. Un diario privato, il senso di una scrittura che ripone totale fiducia nel darsi e nel farsi accudente, grande madre che può distruggere ma che sa proteggere, parole che possono salvare o spostare, ma sempre scarnificando. Lei è la santa nuda, seducente e invisibile, che esplora con sapienza e volontà i limiti oltre i quali non ci si spinge, soprattutto nella letteratura edulcorante, stereotipata, che si vuole smascherare, certi delle potenzialità di un medium che si dimostra forte nel suo dipanarsi, tela di Penelope che si offre infinita ma necessaria in un panorama che si rivela desolante.

L’autrice si rivela nell’incipit: «Se non ci conosciamo neanche cosa c’entra allora vivere tutta questa estate nella tua repulsione?» Da subito sembra voler manifestare una posizione, marcare una differenza. Chi è il destinatario di queste parole? Il lettore o, come vedremo meglio, John? Da subito la scrittura si mostra come esigenza del dire, come necessità, anche incompleta, anche se non dà forma a una storia in senso classico. Ed è una scrittura che procede con frasi brevi, fatte anche di due parole, a volte senza neppure il verbo, come se a emergere fosse un’assenza, un errore, una tiritera di pensieri ripetitivi, di allitterazioni, da cui poter, forse, estrapolare un senso, meglio, una catena di sensi, come se la scrittura fosse un’ininterrotta costruzione di un’ipotesi.

Questa operazione si intreccia con quella della lettura della realtà, che per Saugo è possibile a partire da immagini non banali. Così nelle prime pagine troviamo una margherita spelata, un cetriolo, uno zerbino, che paiono dotati di significazione, le tappe di un processo di ricerca nel quale l’autrice confida anche contro tutte le apparenze. E poi c’è John, che pare il destinatario costante delle sue parole, anche se non l’unico. Nella prima parte del suo testo, infatti, la destinataria è Chiara Caselli, attrice e regista, che è qui citata in modo particolare per il suo lavoro su Molly Bloom, quasi a sottolineare un senso di vicinanza che può essere anche letterario, dato che le parole dell’autrice stanno dando vita a un grande monologo che vuole mettere in luce le storture del mondo dello spettacolo e ridefinire certi rapporti che riguardano alcuni scrittori. In questo modo sembra tornare da una parte alla scrittura come segno della differenza, dall’altra con un’analisi che attraversa indistintamente le persone che le stanno intorno e alcuni vip, due mondi collegati da frasi brevi che cercano spazio, riflessioni filosofiche, giochi linguistici, confessioni, definizioni nette, penetranti.

«Hai visto, John, che magia che sto facendo. Sto scrivendo solo quello che non si nota, e tutto in un colpo solo.»

Tuttavia questa operazione letteraria, questa scrittura per sottrazione marcata, queste assenze che gridano, non sono indolori. L’autrice manifesta un costante sentimento di fragilità e timore, nel farlo, ma specialmente perché sente, sia personalmente, sia letterariamente, di essere il margine di una società maschile e non solidale. In questo senso ripercorre le sue origini nel mondo delle lettere, senza esimersi dal fare i nomi di scrittori con cui è entrata in contatto in modi e tempi diversi, di cui le è rimasto un senso di repulsione, di disperazione. Scelta esistenziale, questa, che le permette di riporre maggiore fiducia in quelli che lei chiama «i giganti» o «il mio gigante», la cui autentica grandezza le permette di scrivere come si sente, senza dover essere artificiosa o modificarsi per imbarazzo, di scegliere liberamente di «andare a caporiga gradino per gradino».

Ci sono alcune pagine struggenti dedicate a Amy Winehouse, con cui si identifica nella misura in cui la sua scrittura, come la voce di lei, è una scrittura muta e per questo asincrona rispetto ai tempi, precedente, costretta a un’onestà che le faccia sempre dire di no alle grazie del potere. Un altro dei temi più evidenti del testo è quello della psicologia dinamica, strumento attraverso il quale Saugo cerca di comprendere meglio il mondo dell’editoria e naturalmente l’animo umano.

È molto critica, molto spaventata dalle ipocrisie diffuse e molto acuta. Il suo sguardo si costruisce sul suo dialogo con John, e riguarda tutti gli uomini, il mondo dell’editoria, quello della psicologia e dei comportamenti umani, il mondo dell’arte contemporanea, dato che l’autrice era stata sposata proprio con un artista. Tutto appare cucito perché nulla si rivela definitivo. Tutto si tiene, ma potrebbe rompersi irrevocabilmente da un momento all’altro. L’autrice, ogni volta che arriva a dimostrare le sue verità, con parole forti, decise, con affermazioni perentorie, sembra sempre che si senta di non aver convinto nessuno, e così prosegue altrove, ritornando più oltre sugli stessi temi che ora abbandona, ora esplora, per intessere altre trame, per mostrare altri incroci, per guardare in altre istantanee da cui inferire altri sentieri, per risemantizzare altri simboli, per farli parlare. Una scrittura di ricerca che finisce per perdersi in sé stessa, nelle proprie verità.

Del resto è inevitabile che dietro questa logica di semantizzazione ci sia il concetto di simbolo, ad affascinarla, lei così pronta a dire, a far emergere, ogni volta che può. È una scrittura terapeutica, fortemente debitrice della psicologia sistemica e della psicoanalisi. Molti sono i riferimenti ai casi più emblematici di Freud, che lei riprende e prova a raccontare in chiave contemporanea, attuale, non come esercizio estetico, ma nella consapevolezza che quelle storie, quei simboli abbiano ancora molto da dirci, siano ancora strumenti utili di decifrazione della realtà.

In questa parte centrale del libro, lo stile si può dire che resta uguale, non si trasforma mai in argomentazione, in saggio, resta catena di aforismi. Se ne può vedere per esempio qui: «centinaia di anni… sono completamente fuori, gli psicologi dinamici, John. Simpatici, sai. Fuori completi. Scrivono nuove ipotesi sul sogno della bella macellaia sognato dalla bella macellaia in persona secoli fa. John, mi fai fare solo confusione. Basta».

Il tono, come si vede, resta informale, schietto, vorrebbe dover rendere conto soltanto a sé stesso, ma si ritrova poi a dover fare i conti con una complessità sovrastante. Da una ricerca piena di energia, voluttuosa, il respiro finisce nel limite della verità, che si può raggiungere solo a costi molto alti e che, quando è palesata, quando è detta e ridetta, ha già perso quella forza che la scrittura ha portato: la scrittura di Saugo si autotradisce nella scoperta della banalità del male, perde la sua partita proprio quando il lettore pensa che sia vinta.

«Io scrivo la parola mamma, di fronte a te, come una santa nuda distesa per terra. Senza neanche corazzarla un attimo con la sua ferrea siamese madre. È la povera parola distesa per terra.»

Narrativa | Come una santa nuda | Alessandra Saugo | Wojtek | 160 pagine

Alessio Barettini nasce a Torino nel 1976, studia Lettere a Siena e poi torna a fare l'insegnante. Adesso lavora in un liceo artistico della città. Quando non è in classe, legge, fotografa, ascolta musica indie e suona la Fender Mustang. Ogni tanto scribacchia, più raramente scrive. Non ha mai suonato al Festival di Reading, ma c'è stato due volte.

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