Marcel ritrovato

Abbiamo tutti un conto aperto con la letteratura italiana del secondo Novecento. Siamo cresciuti con i più importanti romanzi di Calvino, di Fenoglio, di Levi e di Gadda, fari di una stagione ricca e variegata che comprende numerosi autori che non serve elencare, ma su cui si ragiona tuttora a diversi livelli, scolastico, accademico, amatoriale e professionale. Si notano oscillazioni importanti nel tempo che riguardano il canone.

Alcuni di loro sono stati ampiamente allontanati da una centralità che sembrava indiscutibile, altri sono stati e sono spintonati da riflessioni critiche non sempre condivisibili, seppur indice di una riflessione più ampia sul ruolo della critica letteraria, accusata di essere marchettismo, adeguamento a linee culturali più politiche che stilistiche. Credo che il punto, semmai, riguardi il mutamento degli stili, certe rivoluzioni estetiche che il postmoderno e gli anni successivi hanno comportato, cosa che dovrebbe spingere a ragionare sui codici, a ridefinirne i confini, gli spazi, a ragionare sui motivi di ciò che è svanito, prima di costringere tutti al gioco della torre.

Sta di fatto che gli ultimi quarant’anni di letteratura hanno favorito una certa atrofia, cristallizzando nell’ombra alcune opere, fra cui questa, Marcel ritrovato, romanzo di Giuliano Gramigna uscito nel 1969, e ora rilanciato proditoriamente da Il ramo e la foglia, con una postfazione del nostro autore contemporaneo più proustiano, Ezio Sinigaglia.

Il romanzo di Gramigna merita del tutto il suo ritrovamento. L’opera può rientrare fra certi romanzi di ampio respiro (penso a Comisso, a Bianciardi, a Cassola), dove prioritaria è una ricerca del Sé attraverso i fatti della vita, erede di una quête che qui confluisce in una ricerca introspettiva assoluta in cui la presenza del narratore in prima persona si dipana fra le peripezie del protagonista arrivando alla sconfitta, l’impossibilità totale di definire l’Io, qui esposta, palese, alla luce dell’abbandono durante la narrazione della stessa prima persona a vantaggio della terza, logica o stratagemma che permette di sfruttare lo stato di necessità della ricerca e quindi il senso dell’opera, ma anche il contesto e lo stile.

C’è un gioco di specchi rotti che coinvolge il protagonista, Bruno, autore di un romanzo giovanile Il matrimonio sbagliato, incaricato di recarsi a Parigi per cercare lo scomparso Marcello, amico di gioventù dalle grandi virtù morali e qualità di ogni sorta. Ma a commissionarlo è la moglie di Marcello, che è anche un vecchio amore di Bruno, che quindi deve prima di tutto ingaggiare una lotta con sé stesso. Destino, volontà, riflessione, sono costantemente al centro della scena, nel rapporto con il padre, con la sorella, con la storia di romanziere del protagonista e quindi il rapporto fra autore e opera, nella quale Gramigna sembra voler ugualmente sparire.

Sono splendide le pagine in cui la ricerca si fa intensa, perché Gramigna muove da un piano fisico le nevrosi, per arrivare inequivocabilmente allo scacco, in piena tradizione sveviana del narratore inaffidabile e di ricerca psicoanalitica che conduce alla incompiutezza come condizione di vita.

Qui, certo, la tradizione italiana è molto ricca, è arrivata lontano, quasi alla sovrapposizione o scambio di identità, penso all’ultimo romanzo di Alessandro Cinquegrani, o al Pantarèi di Sinigaglia, dove si gioca lungamente con l’idea di un romanzo metaletterario, che si scrive da sé attraverso altri romanzieri. Qui il mezzo di ogni movimento dell’anima è la vicinanza con Proust, il suo stile generosamente incompleto e ampio e sonoramente denso.

I rapporti con la Recherche si dipanano lungo tutto l’arco della narrazione. La sorella di Bruno, Gianna, la cita proprio un attimo prima del momento che dà movimento alla narrazione, quando Bruno trova una lettera del padre che parla di lui come romanziere, quasi come se Gramigna volesse sì dichiarare il suo debito con Proust, ma prudentemente mantenendo vive le distanze.

«A proposito di Proust che avrai visto così ripetutamente richiamato nelle critiche a Un matrimonio sbagliato, te lo farò conoscere non appena tornerai a casa. Se avrai forza di resistere a una letture sulle prime un po’ faticosa, credo che finirai per trovarvi quei pregi e quelle finezze che purtroppo nel libro di Bruno sono soltanto delle povere e sbiadite reminiscenze. […] del resto, sebbene creda in Proust più che in Gesù, sono cose che capitano solo nei libri. Macché intermittences, è cattiva coscienza.»

Il sui debito Gramigna non teme di riconoscerlo, anche se sa di averne tanti altri con autori diversi, che non si preoccupa di nascondere, ma di analizzare, col risultato singolare di avere riferimenti a Manzoni, a Joyce, a Tasso e alle loro procedure narrative, ma accarezzate da uno sguardo psicologico, proustiano, appunto, che mette in conto le volute della memoria e i suoi scarti, le paramnesie, cioè i ricordi falsati.

«È spesso da un vizio della memoria che vengono fuori i recuperi del passato, anche questo me l’aveva insegnato Proust.»

L’atteggiamento di Gramigna è devozionale, la Recherche è un metodo di vita che Bruno applica da sempre ai suoi sentimenti, gli serve per fare ordine dentro di sé, anche se poi l’effetto è contrario è però il vezzo a vincerla, la reticenza a capire di sé e della propria vita.

Così la permanenza di Bruno a Parigi si fa palesemente un perdersi fra le sue strade, un vagabondaggio alla ricerca delle tracce di sé, più che di Marcello, che comunque apparirà, ma diverso, mutato forse dalla stessa memoria che gli altri hanno avuto di lui. È in questo zigzagare impenitente che si trovano le pagine più belle del romanzo, con Bruno in costante movimento sempre accompagnato dall’angelo custode della Recherche, sempre pronto a offrire «il consiglio giusto, la consolazione, l’ammonimento».

In questo modo la scrittura si fa teoria del romanzo, metariflessione che è certo analisi critica di Proust ed è certo incisione lungo la pelle atrofizzata dell’umano abbandonato, droga che sfuma nell’anima in direzioni imprecise, invisibili, come i gangli del sistema nervoso, pur sempre al di là di ogni logica narrativa tradizionale, consequenziale.

Il tempo che si rarefà non è un’eccezione, non è un cambiamento di ritmo, ma una condizione di vita che crea consapevolezza degli stati del tempo, presente, futuro, e passato, dal quale non si può fuggire ma solamente imparare a trarre nutrimento. Le conversazione di Bruno dopo il fortuito, ma forse no, incontro con l’abate Casanova, Sant’Agostino moderno e proustiano, e poi il ritrovamento di Marcello e le imprevedibili, ma forse no, conseguenze della sua ricomparsa, sono case dell’anima e tagli nel tempo che non fanno che confermare la caratteristica più insopportabile del tempo: se cambia, cambiamo anche noi, e la letteratura non fa eccezione.

«La Recherche, a ben guardare, è una tecnica percettiva e strutturatrice: la sua grandezza sta tutta qui e sfido che deborda insieme vita e letteratura e lascia di stucco critici ed esteti. Un metodo per prendere coscienza di tutte le zone della realtà e ipotizzarne una struttura completa dove tutto si tiene.»

Narrativa | Marcel ritrovato | Giuliano Gramigna | Il ramo e la foglia | 296 pagine

Alessio Barettini nasce a Torino nel 1976, studia Lettere a Siena e poi torna a fare l'insegnante. Adesso lavora in un liceo artistico della città. Quando non è in classe, legge, fotografa, ascolta musica indie e suona la Fender Mustang. Ogni tanto scribacchia, più raramente scrive. Non ha mai suonato al Festival di Reading, ma c'è stato due volte.

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