Leggendo alcune parti di V13 mi è tornato in mente un passo di Alla Ricerca del Tempo Perduto in cui si racconta di come Bloch (l’amico ebreo e dreyfusiano del narratore) avesse preso l’abitudine di seguire come spettatore le udienze del processo subito da Émile Zola in seguito alla pubblicazione del J’accuse. Proust racconta lo stato di esaltazione quasi fanatica con cui Bloch si appassiona al processo, dedicandogli intere giornate: «Ci arrivava al mattino per uscirne solo alla sera, con una provvista di sandwiches e una bottiglia di caffè, come al concorso di Stato o all’esame scritto di maturità, e poiché quel cambiamento di abitudini risvegliava in lui l’eretismo nervoso che il caffè e le emozioni del processo portavano poi al culmine, quando tornava a casa era talmente infatuato di tutto quanto era successo in aula che sentiva la voglia di rituffarsi in quel bel sogno, e correva in un ristorante frequentato da entrambe le fazioni per incontrare alcuni compagni con i quali riparlava all’infinito degli avvenimenti del giorno» (da La parte di Guermantes).
Parto da qui perché V13 racconta anche qualcosa di simile. Emmanuele Carrère decide di seguire il processo ai complici e all’unico sopravvissuto tra gli autori degli attentanti che sconvolsero Parigi il 13 novembre 2015 (una strage che tra il Bataclan, lo Stade de France e i bistrot presi di mira, causò centotrenta morti e oltre trecentocinquanta feriti) e di raccontarlo in una serie di articoli per L’Obs (ma usciti contemporaneamente anche su altri giornali europei). V13 – in Italia pubblicato da Adelphi nella traduzione di Francesco Bergamasco – è appunto la raccolta di quei resoconti cronachistico-letterari, parzialmente accresciuti. Ma, essendo che in Carrère l’autobiografia fa sempre capolino in un modo o nell’altro, il libro non è soltanto la cronaca giorno per giorno di un processo, ma
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