Ci si dà del tu senza conoscersi, lo fanno tutti in questa sala al venticinquesimo piano di un grattacielo di vetro e acciaio, ma solo per un minuto, il tempo di scambiarsi i convenevoli e condividere poche sorsate di un drink annacquato, poi l’imbarazzo, o la noia, o una fasulla curiosità prendono il sopravvento e ci si separa, i diversi gruppetti quasi sincronizzati fra loro, eterodiretti se non proprio coreografati.
A uno di questi giri di quadriglia resto solo, poi vengo abbordato da un collega giapponese dalla pelle butterata, appena entrato, palesemente alla ricerca di una stampella umana a cui aggrapparsi. Ha mani nodose, nervose, buone solo per scrivere e-mail e non so se posso fidarmi di lui. Torno solo, poi verso del rosso a una giovane donna alta, molto alta, che mi stava osservando mentre riempivo il mio bicchiere e che mi ringrazia con un semplice sorriso, allontanandosi senza aprire bocca. Vacilla un po’ mentre cammina, sarà l’ebrezza, sarà l’altezza, io la seguo con lo sguardo ancora per un istante poi osservo la sala nella speranza di essere lasciato in pace, ma mi raggiunge il collega russo, quello grasso dei due, così grasso che la camicia fatica a entrare nei pantaloni. Ci tiene a condividere un pensiero che comprendo poco e male a causa del vino, della musica, del suo inglese stentato, del mio inglese scolastico.
Il tutto si ripete più di una volta. Guardo l’orologio e mi domando quando potrò defilarmi senza che la mia assenza si faccia
…