Il libro, agile, ci introduce nell’estate 1981, in quella provincia italiana tra famiglie che inseguono ancora un ideale di benessere senza sapere che il fallimento li sta tenendo d’occhio e bambini che giocano liberi, molto più liberi di oggi, quando era scontato che un bambino tornasse a casa da solo per centocinquanta metri di strada di campagna, quando, più precisamente, Alfredino Rampi finì in quel famigerato pozzo e perse la vita in diretta TV, assurgendo a simbolo incondizionato di tutto e di niente.
Il titolo fa riferimento all’ultima frase pronunciata da Alfredino, già semi-incosciente, una visione e un grido afono che risuona verticalmente da quel pozzo e rimbalza fra le pagine ripresentandosi di tanto in tanto come un’eco lontana.
Siamo all’Aquila, in periferia, Enrico (autore? Semplice narratore?) bambino che si ricorda, coetaneo di Alfredino, di quei giorni in cui Piero Badaloni alla televisione racconta quella triste epopea, della sua famiglia incuriosita e preoccupata, dei suoi progetti di bambino con l’amico Christian che vorrebbe costruire una base spaziale, là nella dolina, per andare su Sirio e incontrare gli alieni.
Alfredino è sullo sfondo della narrazione, oltre quello schermo che lo racconta senza avergli chiesto nulla, come se la sua storia diventasse la storia di tutti i bambini di cinque anni del 1981, di tutte le famiglie con figli piccoli, di un’intera generazione.
Si muove verso tre direzioni principali, Sfondate la porta ed entrate nella stanza buia.
La prima è quella della letteratura dell’infanzia (non per l’infanzia). Il protagonista è un bambino, e quanto è difficile vedere il mondo attraverso i loro occhi lo sanno tutti gli scrittori che provano a narrarci la storia dal loro punto di vista. Per questa ragione la narrazione oscilla tra il ricordo dell’adulto e la trasfigurazione inevitabile che avviene in questa operazione. L’esigenza dell’autore resta quella,
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