Tutto considerato, credo che il collasso dell’universo abbia avuto un certo effetto sulla mia vita. Prima pensavo che avrei dovuto viaggiare parecchio prima di trovare un posto dove fermarmi. Adesso non c’è dubbio che mi troverò un lavoro vicino a casa, intendo sul mio pianeta. Non c’è alternativa, d’altronde.
Non sono un fisico come Lily, quindi non mi sono mai tenuto aggiornato sulle teorie scientifiche sul destino finale dell’universo – la morte termica, il big crunch, l’accelerazione infinita, eccetera. E tutto sommato andava bene così, perché quando poi l’universo è effettivamente morto, è successo in modo completamente diverso da come ci aspettavamo. È stato come lo spegnersi di un interruttore: clic – acceso, clac – spento. Un secondo prima c’era una struttura schiumosa di materia vasta novanta miliardi di anni luce, composta perlopiù da idrogeno e intervallata da immense aree di materia oscura, organizzata in filamenti galattici che si raggrumavano e orbitavano l’uno attorno all’altro. Un secondo dopo c’eravamo solo noi e il resto era scomparso.
Oddio, non proprio solo noi. È saltato fuori che qualche astronave che in quel momento viaggiava ad una certa distanza da soli o pianeti, nello spazio profondo, l’ha scampata. Ma parliamo di una manciata di vascelli, letteralmente abbandonati a sé stessi nel nulla. Qualcuno è riuscito a intercettare il nostro messaggio e arrivare fino a noi; chi non c’è riuscito, non so proprio che fine abbia fatto.
Quando dico “noi” intendo il mio pianeta, che abbiamo ribattezzato Finale, e la sua stella Succurre misĕris,
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