Eleganza, sprezzatura, vena ironica e arguta, sono questi gli elementi chimici e alchemici che rendono il Due Vite di Emanuele Trevi un libro bellissimo, misterioso e magico. Se dal titolo qualcuno potrà scorgere quell’opaca gravezza plutarchiana, bene, niente di tutto questo. Due vite narra la storia appassionata e tragica di due amicizie “letterarie”, quella dell’autore, Emanuele Trevi, fra gli scrittori italiani ed europei più intessuti di letteratura, più bagnato di eccentricità e stravaganza, e la figura di due scrittori amici, stroncati da morte prematura, Rocco Carbone e Pia Pera. Ispirato dal “dialogo dei morti” di Senza Verso, uscito per Laterza nel 2005, racconto squisitamente flaneuristico pesato dal lutto per la morte del poeta Pietro Tripodo, anch’esso scomparso al crocevia della propria esistenza, e dalla nettissima e implacabile lezione leopardiana, Trevi si apre al mondo concreto dell’amicizia, che è un rapporto che si mostra nel manifestarsi delle debolezze, dei punti di contrasto delle passioni e dell’egoismo.
Due Vite è un romanzo di voci e di fantasmi, dove la biografia interiore dei protagonisti non volge mai al compiacimento, anzi, vira verso gli stati di grado drammatico, vuoi per l’amico Rocco verso gli stati bipolari e ossessivi, mentre, per Pia, nella illusoria felicità dei rapporti; per poi confusamente registrare l’inevitabile rovina di ogni rapporto sociale. Nell’ opera di Emanuele Trevi, la narrazione del “male oscuro”, si innesta in una prosa luminosa, la si direbbe spirituale, brillante, ammantata dalla “grazia interiore” di un nume tutelare come Cristina Campo. Eppure, la prosa è terribilmente esposta al gelido distacco tra il narratore e i protagonisti: Trevi sa bene che ogni buona letteratura deve lasciare da parte i buoni sentimenti per muoversi verso regioni di interpretazione simbolica, senza residui o relitti letterari, che il lettore molto accorto potrà scorgere nel “Gioco segreto” di Cesare Garboli sulle immagini
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