C’erano delle mosche morte sul mio casco da pilota numero 24. Le vedevo da terra. Il maresciallo suonava il campanello. La donna delle pulizie: «Non apre non risponde ho sentito un colpo vi prego!» Il maresciallo entrò in casa. Si sentì il rumore dei tacchi. Doveva avere le scarpe usate ai battesimi, tirate a lucido forse per l’occasione che mi ero sparato. «Dov’è?» La donna delle pulizie sibilò qualcosa. Gli agenti si scagliarono contro la porta. Da dentro, sentii il rumore della manica di una giacca che urtava contro il legno.
Iniziò il ritmo serrato delle spallate. Il maresciallo chiamò i vigili del fuoco. Nello studio i secondi passavano; con la luce flebile di dicembre che si schiantava sui libri, facevano angolo nella grande biblioteca, fermi; echeggiava solo il rumore di una candela sul tavolo, sotto a un piattino d’argento. Non l’avevo mai accesa, mi ero riproposto di farlo per mesi nell’appartamento della signora, una padrona di casa ineccepibile.
La donna delle pulizie urlava, diceva frasi strane nella sua lingua, che non riesco a riprodurre nemmeno nella mia mente di morto, e avevano giurato sarebbe stata infallibile. Si affievoliva la luce. Ai miei occhi diventava un raggio. Così sembrò essere la storia di un altro. Socchiusi le palpebre. L’immagine a un certo punto decise di restringersi. Tornai vigile dopo una spallata più forte. Il maresciallo disse a qualcuno: «Togliti, non c’è tempo!»
Mi tornava in mente il motivo per cui ero andato nello studio. Non avevo intenzione di spararmi. Volevo
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