Vite di traverso

L’incontro con Gianluca Liguori è stato casuale: una mattina, zona piazza Repubblica, in mezzo a tanti libri polverosi, puzza di piscio e cibo stantio, barboni ciondolanti e gratta-deretano lungo la strada. Lì dove bancarelle, banconi, chioschi vendono libri e film porno, mentre tu cerchi un Bernhard quello accanto a te cerca un Lisa Ann, che poi è più o meno la stessa cosa. Lì risiede tutta la mia formazione culturale, sono anni che compro libri lì, anni che sfoglio libri sfogliati prima da altri. Trovare annotazioni o segni a margine è spesso motivo di coito. Le dediche sono, invece, fiducia nel genere umano perduto. Simboli e scarabocchi: il privilegio dell’inventiva non conforme, non industrializzata, l’ispirazione anonima. S’acquista a pochi spicci, le mani carbonizzate nascondano la monetina non appena la dai. Medicinali vuoti, tavernelli svuotati, denti marci. In tutta questa bellezza trovo un titolo che mi fulmina: Dio è distratto. E penso che sia un gran bel titolo, che ci vuole assai coraggio per pubblicare un titolo così, oggi in Italia; da parte dell’autore e da parte dell’editore. Anzi, non coraggio, parliamo come si deve: ci vogliono due palle così per pubblicare, oggi, in Italia, un libro che si chiama Dio è distratto.

Dico oggi in Italia non per motivi legati al cattolicesimo, ma al moralismo borghese che domina l’industria culturale. Escono solo titoli svenevoli con copertine svenevoli, fascette celebrative, biografie di autori nati nel mezzogiorno ma residenti a Torino per certi famosi studi. E questo Gianluca Liguori, questo dei titoli, di certi mieli, di certe api, lo sa bene: tutto il suo romanzo Vite di traverso è giocato su questo. Prima di immergerci, trattenere il respiro, scoprire i fondali, incontrare gli squali (che qui s’incontrano; nei libri pubblicati oggi in Italia, no: certi fondali di coralli, pesciolini, alghe, medusine innocue;

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Crapalachia

«Sarà un banchetto di morte e avrà un sapore delizioso.» Così scrive ad un certo punto Scott McClanahan, noi potremmo benissimo sostituire «banchetto» con «romanzo». In effetti, non è un romanzo che parla molto, piuttosto comunica un senso di morte: il plot è trascurabile, i personaggi possono passare sottopiano; ma il tutto ha un sapore delizioso. Ciò che tiene incollati alla pagina è il ritmo, la voce incalzante, pneumatica, prevedibile sintatticamente ma imprevedibile nei contenuti. Fa ridere, sa giocare, sa commuovere, sa indurci alla riflessione.

La prima parte del libro non è altro che la storia del protagonista, un pischello che impara a conoscere la morte dei suoi cari. Non si può parlare di eventi, quanto di avvenimenti, poiché trascurabili nella loro intima natura di causa-effetto. Tutti i personaggi, tranne l’Io, sono malconci, malinconici, mal-conciati, difettosi, tremendamente decadenti, liminari, a un passo dall’ultimo respiro. C’è un’estetica del corpo che non funziona bene, che dev’essere romanticamente brutto o guasto per farlo funzionare narrativamente. Anche da morti i corpi appaiono deformi. Da vivi c’è una lunga descrizione su quanto il corpo sia storto; da morti c’è un passare oltre, una descrizione taciuta, talvolta uno splatter semi-invisibile, un’indicazione che rassicura il lettore: non solo da vivo, tranquilli amici, anche da morto il corpo è amorfo, giustamente guasto e senza più nessuna illusione alla vita con un corpo bello e funzionante: «il buon Dio sarebbe venuto presto a prenderci e avrebbe portato via i nostri corpi di merda». La morte, però, non ha sembianze tragiche o maligne; oltre ad essere una sorta di liberazione, viene continuamente sfidata, provocata, sfanculata, derisa. Gli esempi sono molteplici, i più rilevanti forse sono la ragazzina che suona peccaminosamente il violino durante la veglia funebre; le foto scattate al feretro; quando il protagonista esce con una ragazza e per

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Valdés

«La situazione in patria non era buona. Non bisogna sognare ma essere coerenti, mi dicevo. Non bisogna perdersi dietro a una chimera ma essere patrioti, mi dicevo. In Cile le cose non andavano bene. A me le cose andavano bene, ma alla patria non andavano bene.» Sembra che Remo Rapino sia partito proprio da qui, da una frase di Roberto Bolaño contenuta in Notturno cileno. Il titolo: Valdés in uscita per Tetra Edizioni, mente, trae in inganno; ma ce ne accorgiamo solo dopo aver letto un bel po’ di paginette. Dire che sia la storia di un ragazzino che diventa calciatore sarebbe un’assurdità, sarebbe meno assurdo, invece, dire che sia la storia di una famiglia cilena di generazione in generazione, che trova riscatto e ascesa sociale grazie a Francisco Valdés, detto Paco. E questo per i connotati politici legati all’opera, la cui chiave di lettura è imprescindibile. Ma è comunque poco esatto, proviamo invece a prendere per protagonista la storia politica delle dittature, qualunque esse siano.

«Francisco Valdés era proprio bravo, quattordici anni ancora da fare, uno scricciolo tutt’ossa e nervi. Una delizia star lì a guardare quelle gambe da grillo elicare nell’aria.»

Quindi un ragazzino che gioca a calcio, il cui talento è più volte sottolineato da Garcilaso Boscán, ex calciatore, poi un disastroso infortunio che non gli permette più la gloria tanto desiderata come goleador dei Colo-Colo, e ora allenatore in un campo malsano tutto polvere fuori città. Le vecchie amicizie permettono i buoni rapporti col responsabile del settore giovanile della squadra Colo-Colo, squadra ufficiale in prima divisione di Santiago del Cile. Passione per il calcio e per il vino, al Colo-Colo non sanno mai se s’inventa i nuovi prodigi a causa delle sbronze o ha davvero un nuovo Schiaffino tra le mani. Non è la prima volta

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Baise-moi maintenant

Faccio questo mestiere da un sacco di tempo, vedo i bambini sorridere quando colpiscono il bersaglio, arrivo la sera con un dolore tremendo agli occhi. Il furgoncino l’ha comprato mio padre in cambio di pollame, suini, soppressate. Erano gli anni ‘80, tutti avevano fatto il salto sociale, e mio padre era stanco di zappare e macellare. Così ci siamo messi a girare per feste, fiere; io erano più i giorni che non andavo a scuola che quelli in cui c’andavo, a lui non importava, bastava che aiutassi a smontare e rimontare senza storie. Ho preso la terza media, volevo studiare il francese, il tedesco, l’inglese. Quindi scelsi il liceo linguistico, era giugno quando una sera a cena mio padre spense la tv – era sempre accesa, se mi fermo a ricordare casa e l’infanzia non mi viene in mente altro che la tv sempre accesa, poi certo, altri rimasugli di vigne, colline, soppressate; ma la tv accesa copre tutto – e mi chiese: «Tu vuoi studiare le lingue o le lingue, insieme alla matematica, la scienza, l’arte?»

«Le lingue, faccio io.»

«Solo le lingue? Non pure le altre cose che si studiano al liceo?»

«Penso soltanto le lingue, perché.» (Senza punto interrogativo, a mio padre non si chiedeva, c’era una leggera sospensione che faceva intendere la domanda.)

«E allora tu a scuola non ci vai più, tra una settimana partiamo per la Francia e ti impari il francese.»

Io non sapevo come obiettare, mio padre era questa figura enorme, ingombrante, spaccasedie, uno schiaffo suo mi tramortiva un giorno intero. Poi dopotutto non mi dispiaceva come idea, sarei partito, avrei imparato il francese senza scartoffie. Quindi annuii semplicemente, mia madre fece una smorfia che voleva essere un sorriso, mio padre riaccese la tv col mignolo perché le altre dita erano troppo

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Mani sudate

Roberto la mattina esce di casa per andare all’università. Studia Giurisprudenza, ha una buona media, è l’unico della sua famiglia ad aver raggiunto un simile titolo di studio. Mentre suo padre faceva la vendemmia o tirava il latte dalle zinne delle mucche o coglieva i pomodori, lui sottolineava libri su libri. Viveva a Siracusa, non ha mai pensato di andarsene, ma poi il fascino della città l’ha strappato via dall’isola. Ora Roberto vive a Roma, suo padre sapeva che non era portato per la campagna e l’ha lasciato andare. 860 km lontano da casa, nostalgia diabolica solo di notte. 

Esce di casa ogni mattina alle 7.45. La borsa a tracolla è sempre piena di libri, fogli e scartoffie, gli pesa sulla spalla.

Giorgio lavora, fa il magazziniere. Dopo il liceo non aveva più voglia di studiare. Ha provato qualche concorso in forza armata ma non è passato. Si è messo su internet ed ha inviato il curriculum scarno a tutti gli annunci che trovava. Non aveva propositi, idee, scelte preferibili. Semplicemente voleva un lavoro. La famiglia non gli ha mai rimproverato questa scelta. Forse il posto fisso e una divisa sono più ammalianti, ma meglio così ripetono.  

Roberto quando esce alle 7.45 chiude il portone, si aggiusta la sciarpa, infila le cuffiette, sceglie la canzone, mette le mani in tasca. Ascolta cantautorato, ma anche punk, indie, dreampop, garage rock, dipende. Spesso con lui scende una ragazza, anche lei fuorisede. Si incontrano nell’androne, si danno il buongiorno.

Giorgio ha diversi turni: la mattina dalle 8 alle 14, il pomeriggio dalle 14 alle 19, dal lunedì al sabato. Alza scatoloni pesanti, li apre e tira fuori il contenuto: detersivi, utensili da cucina, prodotti per la cura del corpo. Li registra con il codice a barre e li dispone negli appositi scaffali.

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