Faccio questo mestiere da un sacco di tempo, vedo i bambini sorridere quando colpiscono il bersaglio, arrivo la sera con un dolore tremendo agli occhi. Il furgoncino l’ha comprato mio padre in cambio di pollame, suini, soppressate. Erano gli anni ‘80, tutti avevano fatto il salto sociale, e mio padre era stanco di zappare e macellare. Così ci siamo messi a girare per feste, fiere; io erano più i giorni che non andavo a scuola che quelli in cui c’andavo, a lui non importava, bastava che aiutassi a smontare e rimontare senza storie. Ho preso la terza media, volevo studiare il francese, il tedesco, l’inglese. Quindi scelsi il liceo linguistico, era giugno quando una sera a cena mio padre spense la tv – era sempre accesa, se mi fermo a ricordare casa e l’infanzia non mi viene in mente altro che la tv sempre accesa, poi certo, altri rimasugli di vigne, colline, soppressate; ma la tv accesa copre tutto – e mi chiese: «Tu vuoi studiare le lingue o le lingue, insieme alla matematica, la scienza, l’arte?»
«Le lingue, faccio io.»
«Solo le lingue? Non pure le altre cose che si studiano al liceo?»
«Penso soltanto le lingue, perché.» (Senza punto interrogativo, a mio padre non si chiedeva, c’era una leggera sospensione che faceva intendere la domanda.)
«E allora tu a scuola non ci vai più, tra una settimana partiamo per la Francia e ti impari il francese.»
Io non sapevo come obiettare, mio padre era questa figura enorme, ingombrante,
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