È uscito per Quodlibet, quest’anno, l’esordio di Cristina Venneri. Si chiama Corpomatto e abbiamo fatto quattro chiacchiere con l’autrice.
Il romanzo sembra incarnare molti punti ricorrenti della letteratura contemporanea italiana. L’autofiction su tutti. Tuttavia a un certo punto scopriamo che la protagonista si chiama Marta, eppure si ha l’impressione che fra narratrice e autrice ci sia un rapporto di grande vicinanza. È così?
Il romanzo è autobiografico, non c’è dubbio. Ma non volevo rientrare nel genere dell’autofiction. All’origine c’è la mia esperienza personale che mi ha aiutato a scrivere di ciò che mi interessava. L’autofiction del resto non è un genere a sé e i prestiti della mia vita sono giustamente solo delle parti della narrazione, come succede per tutte le vicende autobiografiche.
Corpomatto è anche, o sopratutto, un bel romanzo di iniziazione, di formazione. La protagonista deve vivere alcune prove: lasciare la famiglia, innamorarsi, scegliere, ritornare. Tutto ha un suo ritmo preciso anche se i momenti a volte si confondono sulla linea temporale. Il trait-d’union sembra essere questo corpo che non va mai nella direzione più comoda, anzi, sembra andare spesso verso la sfortuna, tuttavia è forte e resistente. Marta incarna una persona particolare o un’intera generazione?
Corpomatto è sopratutto un romanzo di de-formazione, pur iniziando come un romanzo di formazione classico. Nel giro di 50 pagine tutto si sovverte perché Marta non ha le basi per far sì che il romanzo si evolva in tal senso. Mi piacciono le narrazioni che si ribaltano rispetto a come sono iniziate. I riscontri del romanzo hanno dimostrato che l’esperienza di Marta è anche simbolica e dunque sì, generazionale. Quello che racconto riguarda una fascia di età ampia, di tanti giovani che hanno difficoltà a emanciparsi dalla famiglia e ottenere successi.
Nella tradizione del romanzo italiano Corpomatto si inserisce in quella linea di romanzi dove giovani protagonisti fanno i conti con le scoperte rivelatorie. Da L’isola di Arturo a Jack Frusciante è uscito del gruppo, passando per i più recenti Etica dell’acquario e Maizo. A cambiare è sicuramente il contesto: totalmente realistico, il tuo, debitore anzi di una fame di realtà che sembra vorace come Marta. Le due cose vanno nella stessa direzione? Finendo il libro hai immaginato un futuro per lei?
Questi romanzi non sono esattamente un modello per me. Mi sono dichiaratamente rifatta a Giuseppe Berto, perché mi riguarda molto di più una scrittura come la sua, che è una specie di deposizione. Non ho vissuto la storia di Marta come una storia di rivelazioni o di scoperte, ma come la storia degli impedimenti che le accadono. In questo senso il finale è l’atto conclusivo della sua impossibilità di avere un futuro. Qualcosa si intravedeva già nella sua scelta di non seguire il musicista con cui ha una relazione. Corpomatto è forse una sorta di lato oscuro di un romanzo di formazione, con questi genitori ingombranti soprattutto.
Oltre al contesto, restando sui temi della scoperta, nel tuo romanzo si fanno i conti con una realtà sociale specifica, che tu sembri non voler mai dimenticare. Taranto, con la sua storia recente, Messina. E poi il resto dell’Italia, il miraggio di una vita meno precaria. Ecco, questo sembra essere fondamentale, per Marta, ma solo fino a un certo punto della storia. Come mai?
Taranto è capitolo spinoso, sia perché gli scrittori tarantini scrivono dell’Ilva mettendola al centro delle loro trame. A me non interessava, anzi, non ho voluto appositamente nominarla, anche se la sua presenza è reale. Non lo merita. Però mi fa piacere che si percepisca il contesto.
Parliamo della scrittura. Mi sembra che per te scrittura sia sinonimo di vicinanza a sé stessi e ai tuoi valori, senza pretese barocche né polimorfiche. Sembri tendere verso una scrittura neutra, impersonale, quasi. Perché?
Il mio interesse principale è stato quello di lavorare sulla scrittura. Ho voluto creare una lingua che mi permettesse di raccontare le vicende dolorose di Marta, quindi si è trattato di usare una lingua “ufficiale”, da deposizione, ma con un contrappeso che desse equilibrio al libro nella sua totalità, specialmente nei momenti più leggeri. L’impersonalità crea un distacco che mi è stato funzionale, ma non è stato un risultato scontato.
La sensazione di una scrittura neutra e controllata la ottieni con una punteggiatura parca, una voce che si muove come un corpomatto dalla mente al cuore in un flusso reciproco costante. Mi sembra il tratto più riuscito di tutto il libro, ma anche una tua lotta personale con certi stereotipi da cui mi sembri uscire vincente tu, come autrice, sensibile a certe pose che si incontrano in una letteratura che ammicca al consumo, da cui per fortuna ti tiri fuori, in fondo è anche un gesto di rispetto nei confronti del lettore. Ci hai pensato mentre scrivevi o è stato naturale?
Nei periodi lunghi che uso ho preferito concentrarmi meno sui contenuti e più su questa forma, sulla stessa costruzione. Dovevo verificare che eliminando la punteggiatura potessi sfruttare la differenza che si crea sovvertendo l’ordine consueto delle frasi. È stato un processo faticoso, che mi ha mostrato una lavorazione fatta di tanti tentativi, tra cui quello di scrivere la frase principale su un file e poi le subordinate sotto, nelle altre righe, per poi vedere alla fine come ridisporle.
Tu hai definito Corpomatto un romanzo di deformazione. È una formazione al contrario o la consapevolezza di un deterioramento inevitabile?
Deformazione o non formazione: da quel che vedo i ventenni di oggi affrontano lo stesso problema di Marta: infliggersi un fallimento, anticipare un fallimento che appare già inevitabile per motivi sociali, mi sembra sia questa la chiave del romanzo: almeno resta la volontà di fallire secondo la propria idea, non si sottosta a quello che gli altri hanno pensato per loro.
Abbiamo parlato solo di Marta. Eppure il romanzo è ricco di altri personaggi unici: penso a Tobia, ma anche alla mamma di Marta, con tutti i suoi problemi di cui è lei a doversi fare carico. Il fallimento sembra essere sopratutto nei personaggi maschili, però. Marta e la mamma soffrono, ma si confrontano con la sofferenza, mentre quelli maschili sembrano solo scappare. Come mai?
Tra gli altri personaggi il fallimento esiste eccome nella misura della sofferenza, ma quelli femminili devono sempre dimostrare qualcosa. Il romanzo è costruito su tre personaggi maschili e tre femminili, che confliggono senza tregua, inevitabilmente. Alla fine penso che le figure di Marta e del padre siano la lotta finale, l’emblema di un confronto perenne che spinge Marta a compiacerlo ma anche a fargli capire che lei è una persona prima di essere una femmina.
Interviste | Corpomatto | Cristina Venneri | Quodlibet | 147 pagine