Filetti di baccalà

Il signor Fausto ha un figlio solo. L’ha chiamato Lorenzo per via del dieci di agosto, anche se lui è di fine giugno. Cancro. Il percorso delle stelle cadenti, il luccicare schivo nel silenzio della notte verde, non lo aveva mai preso per un gioco tra adolescenti. Fosse venuta femmina, l’avrebbe chiamata di sicuro Cometa, come i sogni che cadono nei cassetti quando viene il giorno, o i respiri che interrompono i discorsi troppo seri e le mezze verità. 

Aveva cambiato tre case nel corso della vita. Ma mai città e mai moglie. Cristiana, come la sua devota esistenza, Fausto il chierichetto, Fausto il mezzo prete, sorpreso a correre dietro i ragazzini dell’oratorio, paralizzato nella sua Renault Cinque con una trans olivastra. Quando Cristiana aveva perso la vita, un pomeriggio talmente anonimo per morire, non c’erano partite alla televisione, la corrente elettrica andava e veniva per il quartiere.

Cristiana perde i sensi e non se ne accorge nessuno. Sembra dormire, Fausto non ci fa caso, Lorenzo sta al telefono con Elisa, una sua compagna di scuola che gli passa le versioni di latino, è la numero uno con l’antichità, peccato sia la fidanzata di Giuseppe, il suo migliore amico. Il tempo passa e Fausto ha bisogno di un caffè. «Cristiana, lo fai sto caffè per favore?» Chiedere per favore lo aveva imparato dalla strada. Lui pretendeva un caffè, ma chiedendolo in quel modo, di solito funzionava e la moglie glielo faceva di corsa, sentendosi importante.

Fare il caffè. Una delle tante cose che avrebbe dovuto imparare ad affrontare da solo. Fare il bucato, la spesa, passare il folletto, svegliare Lorenzo per la scuola, accompagnarlo in fermata, alcune delle altre. Si affaccia in salone timidamente guardando la moglie che ha gli occhi ancora aperti, i riflessi del pomeriggio li fanno sembrare ancora vivi e vividi, ma lei ad un tratto si accascia su se stessa e Fausto capisce.

«Lorenzo attacca sbrigati, chiama un’ambulanza per favore, tua madre sta male.» Sii padre. «Scusa Elisa ti chiamo dopo, è appena morta mia madre.» L’importante ora è non piangere, è pensare bene a cosa fare, senza farsi travolgere, mantenere un minimo di distacco dal reale. Lorenzo allora si avvicina a Cristiana sdraiandola sul divano con le braccia conserte, si fa così con i morti, l’ha visto fare alla televisione. Gli scappa di parlarle, è veramente arrabbiato con lei, lasciarlo solo con suo padre non era considerato. «Madre, questo è veramente un colpo basso che non mi aspettavo. Se stai facendo finta di morire è ora di smetterla, veramente grossa interpretazione, ma ora torna fra i vivi, ti prego.»

Cristiana fu seppellita al cimitero di Montecelio, due mattine dopo, nella cappella di famiglia. La famiglia di lei. Questa era un’altra incombenza che sarebbe toccata a Fausto. Procurarsi un loculo per l’eternità. In alto c’era il padre, morto quindici anni prima di diabete. Appena sotto, la madre e la sorella. Era rimasto l’ultimo posticino in basso, ma a lei sarebbe piaciuto, l’avrebbe preso come un gioco, come quando lasciava il letto più in alto alla sorella mentre erano in vacanza nei bungalow bianchi, quelli dei campeggi economici, a forma di palla. Due stanzette minuscole, uno matrimoniale per i genitori, uno a castello per loro due.

Adele, era la più piccola, e Cristiana le aveva fatto da mamma dal momento che cominciano i ricordi, poi però era successo che aveva sbagliato amicizie, che era finita in un brutto giro di quartiere, dicevano tante cose, si erano perse di vista, poi il matrimonio con Fausto, Lorenzo. 

Così, si era ritrovata ad entrare in casa sua, ormai da estranea, con la doppia chiave che non aveva mai avuto occasione di usare. Gliel’aveva lasciata per le emergenze, non certo per vedersela penzolare davanti come un sacco da boxe attaccato al soffitto, violacea e con gli occhi fuori dalle orbite. Non era neanche riuscita a tirarla giù da sola, si era fatta aiutare dal vicino e da sua moglie. Pensò data la loro gentilezza, che se lo aspettavano. Ma non chiese niente oltre a quel piccolo grande sforzo.

Tagliare la corda che Adele aveva attorno al collo, l’avrebbe fatta rovinare sul pavimento del salotto così da recarle un nuovo dolore, anche dopo morta. La scesero con calma. L’uomo le sosteneva le gambe sollevandola di quel tanto che permise a Cristiana e a quell’altra di sciogliere il cappio ed agevolare la discesa del corpo con dolcezza, senza urti e movimenti bruschi. 

Non aveva voluto indagare più di tanto. Non aveva fatto neanche una domanda, tutto sommato era così che affrontava la vita, senza troppa speranza e senza un dolore eccessivo. Si era limitata a restare l’ultima viva della famiglia. Perlomeno fino a quel giorno.

Al funerale di Cristiana c’erano solo i suoi colleghi, precisamente quattro dipendenti comunali che per essere lì avevano disdetto gli appuntamenti della giornata. Fausto uomo di chiesa, portava avanti la cerimonia con le sue letture, voce impostata, grossa, mai tremante. Il prete lo lasciava fare, assecondandolo gli avrebbe reso quella dipartita meno pesante da affrontare. Lorenzo invece aveva nelle panche alle sue spalle, i suoi compagni di classe, accompagnati dalla professoressa di storia e filosofia. Non c’era stato bisogno di avvertimenti, erano tutti composti e silenziosi, qualcuno aveva versato anche qualche lacrima, nessun colpo di tosse per l’incenso, i cellulari senza suoneria.

Lorenzo non rientrò più a scuola, prese il diploma successivamente ad una scuola serale. Cominciò a lavorare alla trattoria dello zio paterno come cameriere, poi aiuto cuoco. Aveva deciso che la cucina lo avrebbe aiutato a fare un passo avanti con suo padre, con la sua nuova famiglia e con il suo futuro contingente: i filetti di baccalà e la cocaina. Fausto andava a mangiare in trattoria tutte le sere, un secondo, un contorno e mezzo rosso sfuso. Faceva capolino per salutare il figlio addetto alla friggitrice, e se ne andava senza pagare, perdendosi nella sua notte di stelle comete e costellazioni dal nome troppo difficile da pronunciare.

Quando esagerava col vino entrava in cucina con il suo fare saccente, per cui Lorenzo lo aveva sempre odiato. Gli si metteva dietro mentre immergeva il baccalà nella pastella, seguendo ogni suo movimento e indicandogli il modo corretto per fare qualsiasi cosa, continuava ad apostrofarlo senza accorgersi di essere veramente fastidioso. Poi si guardavano e quello era il segnale, se Fausto avesse perseverato, le cose avrebbero preso di certo un’altra piega.

Racconti | Filetti di Baccalà | Stefano Tarquini

Immagine: L’Arlesiana, Vincent van Gogh, 1888.

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