Si può seppellire l’Amministratore Delegato nella hall?

Ci si dà del tu senza conoscersi, lo fanno tutti in questa sala al venticinquesimo piano di un grattacielo di vetro e acciaio, ma solo per un minuto, il tempo di scambiarsi i convenevoli e condividere poche sorsate di un drink annacquato, poi l’imbarazzo, o la noia, o una fasulla curiosità prendono il sopravvento e ci si separa, i diversi gruppetti quasi sincronizzati fra loro, eterodiretti se non proprio coreografati.

A uno di questi giri di quadriglia resto solo, poi vengo abbordato da un collega giapponese dalla pelle butterata, appena entrato, palesemente alla ricerca di una stampella umana a cui aggrapparsi. Ha mani nodose, nervose, buone solo per scrivere e-mail e non so se posso fidarmi di lui. Torno solo, poi verso del rosso a una giovane donna alta, molto alta, che mi stava osservando mentre riempivo il mio bicchiere e che mi ringrazia con un semplice sorriso, allontanandosi senza aprire bocca. Vacilla un po’ mentre cammina, sarà l’ebrezza, sarà l’altezza, io la seguo con lo sguardo ancora per un istante poi osservo la sala nella speranza di essere lasciato in pace, ma mi raggiunge il collega russo, quello grasso dei due, così grasso che la camicia fatica a entrare nei pantaloni. Ci tiene a condividere un pensiero che comprendo poco e male a causa del vino, della musica, del suo inglese stentato, del mio inglese scolastico.

Il tutto si ripete più di una volta. Guardo l’orologio e mi domando quando potrò defilarmi senza che la mia assenza si faccia notare, quando potrò finalmente andarmene a letto, non sono nemmeno le dieci, ma fatico a tenere gli occhi aperti, spossato dall’infinita giornata di lavoro, invece ricomincio a parlare con persone che non conosco, in una lingua che non capisco, di argomenti che non mi interessano. Sarà così fino alla pensione e oltre, penso piagnucolando, quand’ecco si sente prima un brusio, poi alcune voci, quindi qualcuno urla, poi urlano tutti, poi urlano tutti ciascuno nella propria lingua, ma al telefono, infine cala il silenzio. Ora che è chiaro, ora che sappiamo, non c’è più niente da dire.

Il Presidente del Consiglio di Amministrazione è morto.

Aveva cinquant’anni e nessuno se lo aspettava, ma non è questo il problema.

Il suo posto rimarrà vacante per settimane, forse per mesi e l’azienda non avrà una guida, ma non è questo il problema.

Lascia una moglie e tre figli, un cane, una villa in città e due al mare, ma non è questo il problema.

Il problema è: si può seppellire l’Amministratore Delegato nella hall se si è travestito da sguattera prima di suicidarsi? 

E non era solo travestito, maledizione, stava proprio pulendo un bagno, uno di quelli usati dai partecipanti al ricevimento. Un cesso, hai capito? Puliva i cessi mentre noi eravamo qui a berci dei cocktail! L’Amministratore Delegato!

Sì, te lo dico io, si parla di suicidio, ma non è che sia sicuro come l’oro. Si parla di suicidio perché il Consiglio di Amministrazione l’ha ritenuta la scelta migliore. È la più decorosa fra le cause di morte, hanno detto. E porca puttana sono d’accordo!

Strangolato con una cintura! È una sciagura, cazzo, una terribile sciagura!

Però potrebbe tradursi in pubblicità… Finiremo su tutti i giornali… su tutti i giornali. Sì, sì, una colossale campagna pubblicitaria gratuita, che di questi tempi non guasta…

Dopo la triste scoperta, le voci si inseguono e non ci si dà più solo del tu, adesso, si è introdotto il turpiloquio, un’oscenità in ogni frase, e nessuno riesce a tenere ferme le mani mentre parla e le facce hanno delle espressioni strane, mai viste, deformate dallo shock, e gli occhi si sporgono fuori dalle orbite, sopra occhiaie scure, fra rughe profonde. Commenti su commenti, agitazione, insulti, sudore e saliva. Almeno fino a quando non partono le interviste.

Inumare gli alti dirigenti nel pavimento è una tradizione che risale alla notte dei tempi, nella nostra multinazionale, quando c’era il rischio che i predatori e la concorrenza facessero scempio del cadavere, se lasciato insepolto.

Si dice che proprio l’usanza di seppellire gli amministratori nella hall abbia consolidato l’azienda, trasmettendo un messaggio di tradizione e continuità alla comunità, garantendo a ciascun dipendente la speranza di un lavoro anche dopo la morte.

La nostra multinazionale vanta secoli di attività, ragion per cui il pavimento è costellato di lapidi. Può immaginare il senso di sacralità che dà la vista di tutte quelle croci, soprattutto il lunedì.

Adesso il tono è completamente diverso: non si usa più il tu e le frasi si sono riempite di Sir e di Madame. Seppur al telefono, tutti si aggiustano gli occhiali sul naso, la gonna sui fianchi, controllano che il polsino della camicia esca il giusto dalla manica della giacca, che la cravatta non abbia più la piega oscena di cinque minuti prima. La stampa merita rispetto.

Per puro caso mi ritrovo stretto fra il panzone russo, la stangona muta e il giapponese dal volto rovinato dall’acne. Forse erano in combutta sin dall’inizio. Forse vogliono incastrarmi.

«Cosa ne pensate?» chiedo, palesando in un frangente così drammatico la disinvoltura del leader.

«Siamo tutti colpevoli… l’abbiamo deluso…», «È lui che ci ha abbandonato in balia del mercato», dicono il giapponese e il russo. Mi giro verso la giovane donna, costringendola a esprimersi o a dimostrarsi definitivamente sgarbata.

«Ben gli sta. Era un maschilista», ci spiazza lei. L’accento è talmente british che non può trattarsi di un’inglese madrelingua. Deve per forza averlo studiato a scuola. Ma in una scuola alta, non come la mia, alta almeno quanto lei.

«Sei ingiusta…» replica uno. «Dicono che baciasse molto bene», si lascia sfuggire l’altro. Lo guardiamo esterrefatti. «Dicono…»

Anche l’inglese del russo adesso è impeccabile. Sarà sceso su di noi lo Spirito Santo? Saremo finalmente capaci di parlare le lingue degli uomini?

«Che succederà ora?» domando, contando su una recente acquisizione anche di doti divinatorie. Risponde solo la stangona, però.

«Non cambierà niente. Non metteranno mai una donna…»

Capisco. Tutti si candidano a sostituire l’Amministratore Delegato o a prendere il posto di chi ne prenderà il posto, e così via, giù giù fino al portinaio, domino della carriera, tetris delle poltrone. Ma contemporaneamente, e a intermittenza, tutti sognano di mollare il lavoro e ritirarsi in campagna, fra i boschi in montagna, sulla spiaggia di un mare tropicale. I due poli del desiderio generano una differenza di potenziale palpabile nei corpi: scariche elettriche si manifestano fra i presenti, drizzando capelli, sollevando gonne, gonfiando doppiopetti. Qualcuno dirà che fra noi serpeggiava il fantasma dell’Amministratore Delegato, altri penseranno che fosse la corrente elettrica del capitalismo: è il denaro che anima gli oggetti in sala, gli oggetti e l’arredamento, i vestiti, i gioielli, persino i corpi, questi corpi che dicono: io sono il mio stipendio.

Passano i minuti, giungono nuove voci: una multinazionale più grande sta già per fagocitarci, verranno tagliate teste, altro che tetris, l’azienda è fallita da due settimane, ma la nostra sistematica lentezza ci ha impedito di venirlo a sapere, pare che i nuovi padroni vogliano ristrutturare la sede, riesumare le salme, seppellirle altrove, ciascuna voce è più deprimente delle precedenti, nessuno ha voglia di rimanere oltre, nessuno ha la forza di guardare il suo prossimo in faccia, negli occhi. A piccoli gruppi, quanti ne contengono i tre ascensori, ce ne andiamo in camera, ai piani più bassi dello stesso grattacielo di vetro e cemento.

Mi metto anch’io in coda, ma quando le porte dell’ascensore si aprono al mio piano, non esco, attendo che si richiudano e proseguo la discesa. Solo un’ora fa volevo andarmene a letto, depresso, invece adesso sento il dormire come uno spreco. Quello che è successo all’Amministratore potrebbe capitare a me domani, potrei restarci secco in mille modi entro la fine della settimana e poi le lunghe, lunghissime gambe della ragazza hanno risvegliato voglie sopite da tempo. Sento i lombi ribollire. Purtroppo lei è sparita senza degnarmi di uno sguardo. Potrei uscire, in città le prostitute non mancano, ma non so se è lo sfogo che cerco. Mi siedo su una delle poltrone di cuoio nella hall, qui non ci sono lapidi, per fortuna, prendo tempo, mi godo il silenzio. Il ragazzo alla reception mi osserva, penserà all’ennesimo insonne, penserà che aspetto qualcuno. Nella mia testa non si affollano mille domande, ma una sola, capace però di schiacciarmi se non saprò rispondere, capace anche di spingermi a galla con la forza del mio stesso peso, se avrò il coraggio di…

Mi alzo, attraverso la porta rotante, chiamo un taxi, gli chiedo di portarmi nel quartiere dei locali notturni. Il tassista mi elenca tutte le zone che offrono divertimento, ma le sue descrizioni non mi allettano e ne scelgo una a caso. Qualcosa non quadra e non so esprimerlo meglio di così: voglio essere io il divertimento.

La città è vasta, attraversiamo larghi boulevard e strette viuzze, quartieri residenziali, sobborghi e siti archeologici a cielo aperto, ma il chiodo fisso con cui sto facendo i conti mi convince di una sola verità scomoda: tutto ciò che vedo è in vendita. Le case e i palazzi, ma pure i ponti e le strade e persino i musei e le opere in essi contenute: ogni cosa ha un proprietario, basta trovarlo e mettersi d’accordo sul prezzo. Si tratta di decidere se la regola vale anche per i corpi, mi ritrovo a pensare.

Quando scendo dal taxi, imbocco la via che l’uomo al volante mi indica con la mano – gli edifici in effetti sono pieni di insegne – e cammino lento, per trovare la forza, ma determinato: incrocio dopo incrocio, mi sono chiarito le idee, ora so cosa cerco. Entrerò in un locale affollato, mi guarderò attorno, proverò ad abbordare qualcuna, a portarmela a letto. Non è il sesso che mi interessa: voglio vendere il mio corpo, voglio darlo via a pagamento, per una cifra sproporzionata o per pochi spiccioli, dipende da come si concluderà la trattativa, voglio vedere cosa valgo davvero, magari un soldo di cacio o magari una montagna di diamanti, «cinquecento euro e sono tuo», potrei dire, «comprami, comprami per una notte soltanto», potrei dire, oppure «sono in vendita, solo stanotte, solo per te, ma dammi dei soldi che gratis lo fanno solo le bestie», non lo so esattamente cosa dirò, lo capirò lì per lì.

Quello che conta è sapere quanto è disposta a pagare una donna, ma anche un uomo, non fa differenza stasera, quanto è disposto a pagare qualcuno per avermi perché c’è questa domanda che mi bussa nel cervello e a cui devo dare risposta: non era il corpo dell’Amministratore Delegato il suo unico, vero capitale?

Racconti | Si può seppellire l’Amministratore Delegato nella hall? | Giovanni Locatelli

Copertina: Relativity, Maurits Cornelis Escher, 1953

Giovanni Locatelli, Cremona 1977, ingegnere di mestiere, suona il piano come forma di meditazione e la chitarra per sfogarsi. Scrive racconti pubblicati su Squadernauti, Settepagine, Prospektiva 59, Secondorizzonte, ecc. Da oggi anche su Senzadieci.

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