Fervore

L’idea del sesso in macchina con Clodia non mi piaceva neanche un po’. Era un’idea balzana, una vera idiozia. Ho lasciato perdere. Lei era bella, splendeva nella sua camicetta logora tipica da intellettuale degli anni settanta, bisogna dirlo, riusciva a farmelo rizzare anche solo parlando di vecchi poeti ungheresi morti di setticemia in qualche vecchio kolchoz, insomma, roba da farci un pensierino. E comunque niente da fare: le interminabili premesse a una serata da profumi tipici, di luoghi comuni occidentali: amanti polimorfi, sentimenti falsati, mi fanno lo stesso effetto del Serpax. Crisi respiratoria. Depressione. Morte. In poche parole: la vita di tutti i giorni.

Sono le tre del pomeriggio e sono chiuso nella mia stanza del quartiere più povero di tutta la città. Mi rannicchio per terra, penso sempre a Clodia. Cosa starà facendo adesso? Sono sicuro, sarà chiusa in bagno a guardarsi i peletti biondi! Cosa faccio, la chiamo? Mi ama, forse? Ma cosa gli dico? Oh, sì, certo, che quella sera non avevo voglia di farlo in macchina… no… Mi vergogno! Sono ossessionato da lei? Sono una brava persona, la chiamo e mi scuso. Sì, sì. Penso sempre a lei. Non è il solito pensierino, quella sera lei ha insistito e io come un coglione me ne sono tornato a casa. Dovrei smetterla di leggere i libri in paraffina tanto belli.

Sono qui spezzato come un giunco sotto l’acqua. C’è chi amando, manda i suoi pensieri a sbattere sempre sulle ombre di malinconia, sono tutti spacciati, spacciati senza dignità, tutti chiusi nella spirale fottuta di amori alati e sognanti. Più grande è l’amore, maggiore è la tendenza a idealizzare amori da pellicole sfigate francesi dal colore delle scenografie sbiadite. Questa ipotesi è la prima presa in considerazione dagli sfigati romantici dalle tendenze colte. Io scelgo altro: fagocitarsi e finirsi. Mi abbandono alle allegorie estreme, non cambio mai, non cresco. Nell’arco degli anni riceviamo sempre i soliti inviti al crescere, gente istruita, concentrata, rigorosa, come posso spiegare loro che crescere è una inutile implorante misericordia?

Mi è sempre parso che sgomitare non avrebbe poi senso, come l’apparire. L’apparire, questa piaga, questa scemenza fatta passare per dovere, dovrebbe essere messa fuori legge insieme a tutto l’esercito di uomini destrutturati dai mezzi dell’imbecillità di massa. Cosa stavo dicendo?  Ah, Clodia. La mia Virago. Ma anche legione di Erinni. La sua voce potente e autorevole, la carnagione malata da memorie del Guercino, è una tela di pregiata fattura. Clodia è la suprema mediatrice, dove vive l’estatico e il disarmato, l’apollineo e il dionisiaco, il Kairos.

Ha lo sguardo di una vetrata di Chiesa. Dico io, ha la bellezza di corrusco sfondo bizantino, intonaco scrostato e le piccole figurine che si intravedono tra le rovine mutile. È un Magnificat. Una Resurrezione. Un veleggiare tra i lampi di tempesta. Come sempre, esagero con il dosaggio dei farmaci.

A sera esco di casa e via per le stradine del mio paese che sembra, sempre più, a un set di Twin Peaks fatto passare, per eccesso di sentimentalismo, a borgo di provincia. Le città, i nostri paesi, sono diventati gli arcipelaghi della nostra alienazione. Crollata ogni forma di valore, sottratta ogni lanterna della fantasia, le case sembrano di cenere. Quanti ricordi tra queste vie fatte di pietre aguzze e sdentate, i primi baci raggomitolati nelle dentature irregolari, i primi innamoramenti – prima di Clodia sono stati pochi e tutti ripugnanti –, il salice piantato nel giardino delle nascite dall’addetto comunale, il mio, il salice a me intitolato, subito diventato stoppia al primo inverno. Una vecchia zia arpia, ma a suo modo gentile, istoriata dalle rughe, nella casa piena di oggetti devozionali di Padre Pio e della Madonna Incoronata. Debbo dire tutti drammaturgicamente belli. Quello della zia, durante le preghiere, erano di un ardore incontenibile; contraeva lo spazio con le sue nenie, il rosario sembrava riempirsi di sangue nella sua voluttà del martirio. L’espressione fusa di dolore, sublime e malinconica come le Madonne infallibili.

Risalgo la strada impervia e solitaria, alzo lo sguardo verso le cose. Ma non riescono più ad interessarmi, per colpa dell’irruzione di una immagine di Clodia slanciata nei tacchi alti ma non vertiginosi, giusti; lei sempre molto bella, capelli a caschetto Parigi anni venti e maglione nero nichilista, gli occhi grandi e lucenti come nei cieli arcadici dipinti da Marco Ricci. È incredibile come una persona possa rapirti o annientarti. Tra gli uomini sembra normale annientarsi e creare la gerarchia.

Clodia esiste o è una di quei fottuti ologrammi al laser che prospettano tanta felicità ai nerd? Lei è sempre più bella ma il suo volto ora è un battito calmo e distante. La sento vicino che grida, a volte piange, poverina, vorrei baciarle le labbra, il seno, il pancreas – sì, anche il pancreas, voglio che sia uno scambio totalizzante.

Piango sempre più forte, lo faccio per imparare, tu non piangi, ma ti graffi e affili il rasoio contro di me. Dove sei, che fai? Sembri avvolta da un sudario di sporcizia. Vieni, entra, la mia stanza è un cubo allagato di luce, deve essere tutto pulito, tutto in ordine.

Ora vivo in un letto bianco inchiodato al pavimento, nessun divano, solo un poster di Nick Cave and The Bad Seeds. Sono intatto, ho i pensieri gelati, ora non posso uscire. Non devo vedere nessuno, il silenzio mi fa paura, a pensarci bene, fa bene alla mia stasi. La mia è carne sprecata. Clodia – la chiamo facendo rimbombare il grido tra le mura della clinica – è tutto il terrestre che possa inventarmi per lubrificare la mia fantasia ovattata dalle medicine. Ogni giorno il letto è spalmato di pianto. Per il mio kairos mancato. Assisto alla mia dissipazione, al mio rompersi.

Racconti | Fervore | Michele Paladino

Immagine: Gli amanti, René Magritte, 1928.

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