Una ragazza

Il re ha parlato, ieri sera, alla radio. Ha cercato di tranquillizzare il popolo, invitandolo a non aver paura del precipitare degli eventi e al tempo stesso a restare vigili, allerti, attenti. L’invasione può iniziare da un momento all’altro. È ingenuo sperare ancora nella pace. Ciascuno dovrà fare la sua parte, forse solo i bambini ne resteranno fuori, ma anche le loro vite saranno coinvolte.

Il governo ha mobilitato i soldati di leva, i riservisti e anche le riserve delle riserve. I miei fratelli sono già partiti; Luka è stato spedito a nord-est, vicino Spina, in uno dei luoghi più prossimi alla costa nemica, mentre Mahco è in servizio a Atia, sulla costa orientale, in un altro punto delicato. Basta guardare la cartina geografica per capire e non farsi illusioni. Siamo circondati. Ho l’atlante fra le mani, in questo momento, come i generali, e dall’atlante arriva una condanna senza appello. Il nostro piccolo Stato è un’isola grande pressappoco come la Cecoslovacchia. La terraferma non è distante, pochi chilometri ci separano da tre grandi Paesi: il primo, la Dittatura, è quello che vuole attaccarci, e ci guarda da est, da sud e in parte anche da nord. A nord e, per un tratto ad ovest, troviamo la Repubblica, a ovest/sud-ovest, il Regno. La nostra storia di isolani è sempre stata segnata da queste tre potenze che vorrebbero prendere possesso della nostra posizione strategica. Ma ogni volta che una ha provato a sottometterci, le altre si coalizzavano e impedivano alla terza di divorarci. È sempre stata così la nostra storia e sono secoli che ci salviamo grazie a questo equilibrio.

Sono vent’anni che la Dittatura ci lancia provocazioni, reclama pezzi di mare, isolette, ci vorrebbero meno disinvolti e più sottomessi alle loro manie di grandezza. Vogliono prendersi dal confine con i Paesi dei musulmani fino all’Oceano.

Noi siamo un duro ostacolo per la Dittatura. Non tanto militare, sono più forti, quanto simbolico. Rappresentiamo un esempio che mette in crisi la propaganda, siamo la dimostrazione che quelli sbagliati sono loro. Non potevano invaderci, ma hanno finanziato a lungo dei terroristi per seminare il panico, piazzato bombe sui treni o nelle piazze, ucciso innocenti, pestato gli oppositori politici.

Il primo pilastro a cedere è stato il Regno, lo Stato dell’ovest. Nel Regno scoppiò una feroce guerra civile che perdura. Chiaramente uno Stato sconvolto da un duro scontro interno non si preoccupa troppo della politica estera, e così a contendersi la nostra isola rimasero solo la Repubblica e la Dittatura.

Quando parve che la Repubblica stava per abbandonarci al nostro destino, uno dei nostri ministri, Baladier, prese un aereo e corse nella capitale repubblicana. Riuscì a convincere quel governo a non lasciarci soli, a rinnovare la nostra alleanza, perché se la nostra isola crollava, poi sarebbero crollati anche loro. La Dittatura non si sarebbe accontentata di noi. 

E la Repubblica si è lasciata convincere, sono tornati a proteggerci e la Dittatura ha arretrato, ringhiando sempre come un cane rabbioso, domato solo per il momento.

L’accordo fu festeggiato sull’isola con balli e canti nelle strade. Tirammo un gran sospiro di sollievo. Alle successive elezioni parlamentari il partito di Baladier, che è sempre stato uno sputo di partito, ha conquistato la maggioranza dei seggi. Solo tre anni fa.

Ci eravamo illusi. È accaduto qualcosa che neanche Baladier aveva previsto, che nessuno in Europa poteva immaginare. La Repubblica è crollata. Si è sciolta come neve al sole, nell’arco di un niente. L’esercito nemico è entrato nella loro capitale, il Paese è stato diviso a metà e la parte meridionale, quella che ci guarda al di là del mare, è stata occupata dalla Dittatura. Se avete seguito fin qui tutto il ragionamento, capirete che la Dittatura ora ci circonda per tre quarti. E nel Regno sta vincendo la fazione amica della Dittatura.

Ecco perché nessuno si fa più illusioni, tutti sanno che i cannoni e i mitra dei soldati nemici presto saranno qui, fra noi. Esco di casa e mi guardo attorno. Penso che potrebbe essere l’ultima volta che il mio occhio si posa su queste case, questi parchi, queste strade. Lasceranno la statua del re, lì all’angolo con la piazza del mercato?

Passa un bel giovanotto e ora non penso più solo a certi pruriti, ma piuttosto prego che possa salvarsi, perché so (e lo sa anche lui) che potrebbe volare via da un momento all’altro. Di quel ciuffo biondo, di quel viso ossuto, di quei baffetti appena accennati sopra il labbro, di quel passo deciso da attore del cinematografo, di quel concentrato che grida vita e dinamicità, potrebbe non restare più nulla, nemmeno le ossa per il cimitero.

I fidanzati corrono a sposarsi. Si anticipano i tempi, si sale in municipio e nel volgere di pochi minuti si consolida un’unione. Nessuno rimanda senza la certezza di un dopo. Le spose restano incinte subito, i soldati hanno paura di non avere altre occasioni, che potrebbero non tornare, sentono la morte alitare sul collo e provano a lasciare sulla Terra almeno un bambino, un bambino che avrà il viso o gli occhi del padre-eroe.

Io, anche se ho ormai compiuto venticinque anni, non ho né un marito né un promesso sposo. Ho lasciato Mathias da diversi mesi. Il babbo è all’antica ma ha capito. Mathias è violento, arrogante, sgradevole. Una creatura senza interessi e vacua che voleva tombarmi in casa a fare la massaia. E io l’ho lasciato!

Addio!

Per uno come lui, un vero affronto. È venuto ad appostarsi sotto casa intere giornate. Si piazzava sulla panchina che dà sul fiume, sotto la mia finestra, e anche se tenevo gli scuri ben sigillati, potevo sentire comunque i suoi occhi scrutarmi, giudicarmi, condannarmi. Ma io sono più testarda di lui e ho resistito! Ma scendi a parlarci, almeno, mi disse la zia. Non è mica un mostro, insisteva, vorrà solo darti delle rose o dei cioccolatini, cose da cinematografo. No zia, ribattevo, è cattivo, è capace di tutto, anche di portarmi chissà dove e farmi del male. E la zia, taceva.

Il vigliacco sapeva che i miei fratelli erano già lontani e che il babbo, poverino, monco di un piede, non poteva far molto per proteggermi. Prima o poi si stancherà, mi dissi e costretta a fare la reclusa, colsi l’occasione per finire finalmente il malloppone interminabile del Conte di Montecristo.

Si stancò prima lui. Dopo tre giorni d’appostamento, trovammo nella cassetta delle lettere un foglio a me indirizzato da parte di Mathias. Non una lettera d’amore o delle scuse; c’era scritto che aveva provato a vendere la mia verginità agli invasori, ma valevo talmente poco che all’asta aveva rimediato solo due spicci. Con una prova tanto evidente fra le mani, il babbo poté andare dai gendarmi, sporgere denuncia, far valere la sua autorità. Alcuni gentili signori andarono da Mathias e gli intimarono di smetterla se non voleva finire dentro. E Mathias smise.

Oggi, scorgendo questo cielo sfacciatamente limpido di settembre, mi è capitato di pensare anche a lui. La guerra non fa distinzioni e anche lui dovrà difendere i confini. Parlava tanto di maniere forti, uomini nuovi da forgiare, guerra sola igiene del mondo, razze superiori e razze inferiori, bene, ha la sua occasione. In un mondo giusto le guerre dovrebbero farle solo i Mathias, solo loro dovrebbero andare a cercare sul campo di battaglia la realizzazione che non riescono a trovare nella vita. Noi gente pacifica, io, i miei fratelli, il babbo, la zia e tutti gli altri dovremmo essere esonerati. Avere un certificato di non-violenza e continuare a trascorrere le nostre vite felici, con le salite e discese del quotidiano, senza che venga una guerra a sconvolgere tutto, a segnare un prima e un dopo, a sospendere e rinviare.

Ma così non è. Nessuno può sfuggire a quello che sta per accadere. Vedo il babbo, poverino, agitarsi inquieto perché lui con il suo monopiede può fare davvero poco. Ha messo la bandiera al balcone e sta con l’orecchio fisso sulla radio sempre accesa. La dichiarazione di guerra può arrivare da un momento all’altro. La zia è entrata nel comitato di quartiere e sta sistemando il parchetto della piazza per farne un orto di guerra. Coltiveranno verdure che crescono in fretta, cibo prezioso che potrà essere utile nei mesi che ci aspettano. Io, che so ticchettare la tastiera di una macchina da scrivere rapida come una mitraglietta in azione, ho chiesto al governo di poter lavorare come dattilografa. Hanno accettato al volo. Siamo volontarie anche noi, come i soldati, riceveremo qualcosa quando ci sarà del denaro, a guerra finita, a vittoria – se il Cielo vuole – ottenuta. Ci passeranno il pranzo, rancio per soldati, ma nei prossimi tempi la fame stringerà lo stomaco e quel che viene è benedetto.

Cammino sul viale elegante, verso al porto militare. Sarò operativa lì per il momento, all’archivio della Marina. Il porto della nostra città è il più importante dello Stato. Sorgiamo dirimpettai alla Dittatura e qui, nei lunghi anni di ripicche e provocazioni che ci hanno preceduto, il governo ha concentrato una parte consistente della flotta. Quando la Dittatura attaccherà, le navi partiranno e proveranno a fermarli. Sono ore febbrili. Le teste d’uovo della Marina sono al piano superiore al mio e pensano e ripensano a cosa possiamo fare con quel che abbiamo a disposizione. Armi più potenti delle loro non ne abbiamo, i nostri soldati sono meno dei loro, siamo circondati e senza più amici. Ma la resa è un lusso che non possiamo avere.

La nostra isola, con i suoi difetti, è pur sempre una piccola democrazia dove tutti possono esprimere la propria opinione e nessuno viene incarcerato se ha idee diverse dalla maggioranza. Alcuni esuli della Dittatura sono venuti a vivere da noi e hanno raccontato nei libri e nei giornali come funziona dall’altra parte. Se non sei allineato, se hai un tuo pensiero, arriva la polizia a casa, ti picchiano o ti fanno ingurgitare del disgustoso olio di ricino. I più ostinati sono spediti lontano da ogni contesto civile, su remoti paesini di montagna o su isolotti desertici, a scoppiare di solitudine. Tanti, poi, vengono uccisi e torturati. La Dittatura e Mathias si somigliano, fanno discorsi simili, parlano di razze perfette e dicono di voler disinfettare (usano proprio il termine solitamente riservato ai germi) il pianeta dai più deboli ed emarginati.

Non mi piace proprio la Dittatura e confido che l’isola saprà tirare fuori l’ingegno e la necessaria astuzia per vincere questa guerra impari.

Sono arrivata al porto, intanto. Il meteo non sembra risentire dell’ansia pre-bellica ed è una magnifica giornata serena. Il mare brilluccica sotto il sole, le grosse navi verdi ballano in lontananza sulla cresta dell’onda.

Mi avvicino al cancello, sento i gabbiani e gli altri volatili del mare, la piazza vuota, una voce dietro di me:

«Mineota, mineota!»

Che nella nostra lingua vuol dire puttana, sgualdrina.

L’ho riconosciuto e vorrei non voltarmi, accelerare il passo, entrare e rifugiarmi oltre il cancello dove è pieno di militari armati. Come può essere da queste parti? Con tutti i giovani al fronte?

Racconti | Una ragazza | Fabio Brinchi Giusti

Copertina: Stelle, Maurits Cornelis Escher, 1948

Fabio Brinchi Giusti è nato nel 1990. Ha pubblicato il romanzo di fantascienza Colpo di Stato su un asteroide e la raccolta di racconti horror e weird 2007. Vive a Bologna.

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