Cade un anello dalla scrivania. Scivola da una pila di fogli. Elisa guarda l’orologio. Si sente il trillo di Skype. Boris risponde. Esce fuori un ragazzo: «La strada è in tilt». Elisa si avvicina. «Vasyl si volta, tira calci al bidone della spazzatura. Vedo una massa di giallo, che esplode. Vasyl mette le mani in faccia. Ha un tatuaggio sul braccio. Ci sono i giornali lasciati a terra dagli impiegati.» Il ragazzo ha i capelli spessi, turchini, folti, gli occhi neri. «Svolta un bambino, in sella a una bici. Vasyl è davanti al negozio di televisori. Gli apparecchi proiettano film.» Lo psichiatra indica la maglia bianca, strappata, i tagli. «Guardo la scritta assurda, in piazza; arriva una specie di formicolio: Ai rifugi antiatomici con ingresso nella metropolitana, con ordine». Il ragazzo riprende fiato. «Il dito in pixel è verso il sottopassaggio. A Vasyl faccio dei cenni. Le auto saltano pochi centimetri indietro e avanti. Il gas esce dai tubi di scarico. Vasyl sbarra gli occhi, digrigna i denti, gira il viso.»
La notte Boris chiude gli occhi sereno. Sua figlia dorme nella camera davanti, una stanza piena di bianco, in cui ogni cosa ricorda una stella: lampada, divano, coperte, cuscini. Elisa ha sviluppato una passione per quella forma. La sua ossessione è ciò che resta disperso «nella galassia». L’attraggono i pianeti, le costellazioni. Nei cassetti ha decine di modelli. Sulla scrivania ne sorge uno con un cerchio attorno. Elisa non si avvicina, se non per scattargli una foto e metterla su Instagram, per le diverse stagioni che si avvicendano alla finestra. Camera di Boris è semplice. L’armadio era dell’ex moglie, lui lo custodisce senza che nessuna possa aprirlo.
Sentono il campanello. Il rumore rimbomba sulle pareti. La luce del lampione si schianta dalla vetrata dello studio sul piano inferiore, rende la casa colma di effetti d’ombra. Boris si sveglia. Elisa apre le coperte. Il campanello suona di nuovo. Elisa scivola fuori dal letto. Boris intravede le mosse della figlia, guarda il cellulare. Elisa va sotto. Boris si alza. Mette la vestaglia. Esce dalla stanza. Elisa si dirige verso l’ingresso. Prende le scale. Esita ogni due passi, fino alla porta.
«Dài!» esclama lo psichiatra. «Togliti. Aspettami.» Scende veloce e la vestaglia si gonfia. Un lampione ha uno sbalzo. Boris arriva. Scorge una persona, mette la mano destra sulla spalla della figlia, spinge di lato. Si sente uno scroscio d’acqua. Il lampione di fronte ha un altro calo, stavolta per secondi. Elisa torna davanti. Boris si avvicina alla maniglia. Irrompe un rumore. Ferma la mano. Il vicino butta la spazzatura a ora tarda. Boris gira la testa verso il suo appartamento.
«Mi fai entrare?» Il timbro della voce è nascosto dalla pioggia. Elisa afferra le chiavi. Boris si sposta come a voler prendere qualcosa da scaraventare. Fa dei gradini all’indietro. Elisa apre.
«Sei un pessimo parente.» Entra Mordecai. «Sono arrivato ieri per un articolo. Dovevo incontrare uno. Sono andato in albergo, una specie di motel a ore con la moquette che puzza di piscio.» Toglie l’impermeabile, lo mette sul divano. «L’ho incontrato, mi serve il tuo studio.»
«Che?» Boris inizia a tamburellare con le dita sulla balaustra. Dà una lucidata al legno con la vestaglia. Scende dal passamano. Fa un balzo. Punta il soggiorno. Si avvia in modo che le piastrelle toccate siano dispari. Arriva in cucina. Conserva solo la fame nervosa. Apre il frigo. Cade un braccio, tagliato, mancante di un dito, reciso. Il braccio si schianta a terra dopo aver colpito una bottiglia di latte, muove le dita lentamente.
«Dio!» Boris arretra.
Elisa sale in camera. Torna con un bastone per i panni.
«Che vuoi fare?» dice lo psichiatra.
Elisa fa cadere l’arma. Poggia la testa tra le mani.
Boris guarda il vuoto: «Chi ha portato un cadavere, qui?»
«Se tu…» dice Mordecai.
«Non lo so!»
Mordecai prende il telefono.
«Qual è la sua emergenza?»
«C’è un morto. Mio fratello ha trovato… insomma…»
Dalla cornetta si sente: «Lei come si chiama?»
«È casa di Boris Vivaldi.»
«Lo psichiatra della televisione?»
«Collaboratore del Bureau.»
«Indirizzo?»
«106 E *** St.»
Mordecai si mette sul divano.
Un quarto d’ora e bussano alla porta. Elisa va ad aprire: «Venite». Entra il primo poliziotto, anziano, doppio mento, insieme a un giovane collega. Guardano i fratelli. Il gatto scende le scale, Elisa lo afferra. Boris indica l’arto mozzato. L’agente va verso il resto umano. Si abbassa per osservarlo.
Il braccio trema. «Che diavoleria è?» fa l’agente. «Chiama la centrale, cazzo!»
L’altro poliziotto afferra la radio: «Abbiamo risposto a 106 E *** St. Ci sono dei resti. La casa è di un collaboratore del Bureau».
«Vivaldi?» si sente.
«Sì.» L’agente prende i documenti sul tavolino. «Nato a Pescara il 6 marzo del 1955. Residente nella città di ***.»
«Sono del medico?»
«Non identificati.»
Lo psichiatra prende il cellulare. Scrive. Immagina la scena di Malcolm che viene svegliato dal suo messaggio. Abita lì dietro. Boris mette via il telefono e si rivolge all’agente giovane. Va dritto nella zona in cui è abituato a stare, la post-verità. Nessuno come lui riesce a estrapolare da un filo di reale una gigantesca balla. «Il mio vicino è una persona orribile. Va in giro armato. Ne sono certo. Dentro casa ha un arsenale, è fissato, videogiochi, poster. Vive per la guerra e parla solo di morte.»
«Lo ha visto di recente?»
«Elisa, hai visto il nostro vicino?»
«Non lo vedo da mesi.»
«Mia figlia è disattenta.»
L’altro agente si avvicina al frigo. «Questo è suo?» C’è un sacchetto.
Malcolm entra. L’agente chiama il detective del Bureau: «Ecco quello che ci hanno fatto trovare». Mostra il braccio. Il poliziotto spezza un gambo dei girasoli sul tavolino. Scuote l’arto.
«Avete chiamato la scientifica?» Il detective mette una mano nella tasca interna della giacca.
«Stanno arrivando» dice l’agente. «Non so perché sia qui lei.»
«Si riesce a capire se è di un uomo?» Malcolm tira fuori gli occhiali.
«Pare un maschio, glabro.»
«Credo.» Si abbassa sulle ginocchia, per guardare meglio il resto umano. «Quella busta?» Non si avvicina troppo.
«Sembrano altri resti.»
«Ti posso dire una parola?» Malcolm prende per la spalla lo psichiatra.
Boris non vuole parlargli. In particolare vuole tenere per sé, almeno per il momento, la storia della videochiamata che ha ricevuto su Skype.
«Mi spieghi?» Il detective indica la cucina.
«È venuto a trovarmi mio fratello, in piena notte, e abbiamo aperto il frigo.»
«Hai fatto tu la scoperta?»
«Avevo visto il braccio.»
«Segni di effrazione?»
«No, sembra.»
«Cercherò di accaparrarmi la pratica.»
«Non ho idea di chi…»
«Può essere un atto dimostrativo, ma nessuno vuole fare guerra al Bureau.»
Boris va verso sua figlia. «Stanotte stiamo fuori.»
«Ti pare?»
«Va’ a prendere le tue cose.»
«Sarà uno squilibrato.»
«Direi che è un’idea uscire.»
Elisa sospira. «Ti ricordi quando avevi quella specie di collassi?»
Boris la guarda. «Muoviti, dài.»
«Vorrei averne uno.»
«Lascia il gatto in giardino. Domani lo portiamo dalla zia.»
I «collassi», come li chiama lei, sono iniziati in un giorno agostano. Boris è solito volare in Italia dai parenti, con sua figlia, stanno lì un paio di giorni, immersi nei suoni delle cicale, nella stasi della provincia. Boris è stato travolto come da una randellata.
*
Boris esce dall’hotel. È sulle prime pagine, che si chiedono se un collaboratore del Bureau abbia subìto una minaccia violenta. Elisa ha deciso di rimanere in stanza. Boris ama scrivere di mattina. Lo fa in luoghi affollati, come un McDonald’s, una tavola calda o una sala da caffè. Si siede al tavolo più discreto. La cameriera arriva, lui chiede dei biscotti, un pancake.
Legge i giornali con l’accuratezza dei monaci certosini. Ogni riga. Non gli sfugge niente di ciò che hanno scritto sulla sua storia. Molti direttori li conosce. Boris ha per la stampa un amore immenso, ereditato dal padre, di mestiere giornalaio, nell’unica edicola di un paesino abruzzese. Del genitore conserva un’opinione eccellente, non ne conosce il motivo: con Mordecai e Isa sono fuggiti da un padrone che per loro aveva immaginato una vita misera.
Boris inizia a mandare messaggi per fare apprezzamenti. La cameriera porta il caffè. La scorrevole si apre. Entra il detective Malcolm. Fa colazione lì, la sala si trova sulla strada che porta al suo ufficio. È un luogo d’incontro tra persone diverse, tra le cravatte di chi va a lavorare nei grattacieli e i maglioni infeltriti dei poliziotti in borghese. Boris li chiama «i luoghi di frontiera». Malcolm ordina, si siede di fronte allo psichiatra. Boris abbassa i giornali.
«Come sta andando?» dice il detective.
«Non dormivo in hotel con mia figlia da anni.»
«È impaurita?» Malcolm toglie la giacca e mette accanto.
«È la persona più intelligente che conoscono.»
«Mia figlia ha paura di ogni cosa.»
«Ho fatto razzia di giornali. Se c’è una cosa che non riesco a contenere è la voglia di ascoltare il mio nome o vederlo scritto.» Boris gli avvicina un quotidiano.
«Cosa dovrei…» Il detective si abbassa per leggere. GLI INVESTIGATORI ESCLUDONO CHE SI POSSA TRATTARE DI UN’AZIONE DELLA CRIMINALITÀ ORGANIZZATA. Rialza la schiena. «Quindi?»
«Avete la malsana idea che sia stato un dilettante.»
«Non ci sono indizi» dice Malcolm.
La cameriera posa un’altra tazza e mette il caffè.
«Non c’è alcun segno di effrazione. Conosco bene casa mia, le uniche finestre per infilarsi sono nello studio.»
«Avevano le chiavi. Chi ne ha?»
«Io e mio fratello.»
«Tua figlia le porta a scuola?»
«Elisa andrebbe in giro per *** ogni minuto. Quando non ci sono per lavoro, va direttamente da Isa fuori città.»
«Una domestica, un giardiniere?» Il detective afferra dei tovaglioli.
«Non ho nemmeno un’impresa di pulizie.»
«Fammi capire… Tu e Mordecai?»
«Esatto.»
«Lui dove si trovava nei giorni precedenti?»
«Non essere ridicolo… Era in redazione. Sono stato a un convegno cinque giorni. Ero tornato qualche ora prima.» Boris corruga la fronte. «Ho fatto cena e sono rientrato. Puoi verificare, chiama la mia segretaria.»
«Ancora non sappiamo quanto tempo è passato dall’omicidio, il medico legale ci sta lavorando. È difficile risalire all’ora del decesso così.» Malcolm prende il caffè amaro. «Pare che il braccio e gli altri resti siano stati messi nel tuo frigo poco dopo la morte. Si sono conservati. Appartengono alla stessa persona. Sembra che il braccio sia stato tagliato con degli attrezzi da chirurgo.»
«Un professionista.»
«Hai mai avuto dei ferri da chirurgo?»
«Ancora?»
«Ti ho chiesto se ne hai…»
«Odio la morte.»
«Il taglio è stato fatto con precisione, magari da un bravo medico.»
«Non sai di cosa parli» dice Boris.
Il detective fa un sorso e rimette la tazza sul tavolo.
«Hai il coraggio di sospettare di un tuo consulente?»
La cameriera li interrompe. Ha la treccia bionda che le scende sulla spalla. «Ditemi pure.» Malcolm vuole una brioche, Boris dei biscotti e un succo d’arancia. La cameriera scrive sul taccuino, sorride in maniera accentuata a un ragazzo all’ingresso.
«Ti hanno trovato in casa resti di uomo. Non hai assolutamente idea di chi siano. Non ci sono segni di effrazione. Dici che nessuno aveva le chiavi del tuo appartamento. Ti sembra così anomalo che qualcuno sospetti di te?»
«Non ho un movente.»
Malcolm sorride. «Tuo fratello è qui da molti giorni?»
Nella mente di Boris inizia a farsi spazio un’idea. Le chiavi, lo psichiatra, non le lascia in giro. Suo fratello è l’unico ad avere accesso alla casa e quel giorno è stato a ***. Manca il cadavere, il movente. Mordecai, pensa Boris, chissà quanti contatti ha. E c’è la storia della chiamata su Skype. Ci pensa per il tempismo: la notte del ritrovamento, dopo che è stato fuori.
«Mordecai è stato qui per molto tempo?» chiede Malcolm.
Arriva la colazione. Il detective taglia la brioche.
«È stato a *** solo la sera del ritrovamento, per quel che ne so. Ero via. Non ne ho idea.» Boris bagna le labbra. «Non è in grado neanche di guidare perché ha paura di fare male a qualcuno.»
«Ne sei sicuro?»
«Certo.» Si guardano. «Ce l’hai con lui perché ha avuto una relazione con…»
Malcolm sbarra gli occhi. «Mordecai era l’unico ad avere accesso alla casa. Me lo stai dicendo tu. Dici che non c’eri, non ci sei stato, non sai nulla di questa storia. Nessuno oltre te e lui ha la chiave, è ovvio che la seconda ipotesi è tuo fratello.»
Il detective fa un sorso. Mordecai non è un uomo che fonda le sue azioni sull’interesse, mette sempre sé stesso al secondo posto: prima vengono gli altri. Hanno litigato migliaia di volte. Lo psichiatra sostiene che suo fratello debba svegliarsi; perché come può un uomo vivere se non nel culto dei propri interessi? Mordecai gli risponde. Il suo scopo è ignorare i profitti, così sarà in grado di essere felice, senza aspettative, conquiste, e i suoi nemici saranno sempre quelli come lui.
«Senza un cadavere è difficile indagare» dice Boris.
«Quando arriveranno i risultati della scientifica avremo un quadro più chiaro.» Malcolm mette il caffè sul tavolo. «Ci hanno assegnato il caso perché sei nostro collaboratore.»
Mordecai non è in grado di uccidere una persona. Per ammazzare ci vuole ferocia. Sono sempre stati complici, in particolare dal viaggio dall’Italia, da quando a quindici anni hanno deciso di abbandonare l’Abruzzo per fuggire dal padre e di raggiungere a *** la zia. Ogni volta che ripensa a quei giorni, gli passano brividi lungo il corpo, come un serpente gelato che attraversa la pelle e riemerge. Mai ha avuto a che fare con errori di Mordecai. È Boris il disastro, il soggetto poco raccomandabile da dieci anni senza più amici. Sei tu, l’incompreso a giusta ragione, chiamato a una cosa straordinaria: la responsabilità di portare avanti un segreto che ti costerna, un dubbio sulla colonna della tua famiglia, una pulce infilata negli spazi più certi.
«Non posso che dirti di rimanere a disposizione, di non allontanarti da ***, finché qualcosa non verrà scoperto.»
«Come vuoi» dice Boris.
La cameriera torna con la brocca del caffè, sorridente. Il sole le rende gli occhi più chiari, quasi verdi, da un marrone dai riflessi smeraldo nascosti. Ha l’espressione solare, forse per il ragazzo che continua a osservarla. Boris vagheggia sulla cameriera, che sembra non avere più di venticinque anni.
«Professore, oggi abbiamo la crostata di mele.»
IRRUZIONE DI QUATTRO UOMINI ARMATI IN UNA SALA DA CAFFÈ A ***
Entrano quattro uomini. Il primo ha la barba, le orecchie lunghe che emergono dai capelli ispidi; un grumo rosso si staglia vicino all’occhio destro e lascia uscire rivoli di sangue. Indossa una tuta, lancia scintille; un rigo attraversa la gamba sinistra, grasso d’auto o di qualche arnese per il lavoro nei cantieri. Ha uno zigomo tumefatto. Entra per primo. Urla di stare zitti. Nel locale fanno finta di nulla. Lo ripete forte. Stavolta lo ascoltano. L’uomo tira fuori la pistola. Afferra per il fianco una donna seduta vicino all’ingresso. La getta tra le sue braccia, tiene la pistola puntata a turno agli angoli del locale. Gli altri tirano fuori le armi e si apprestano a fare irruzione, dopo aver guardato che in strada non ci sia nessuno. Il secondo uomo è grasso, occhi incavati, carnagione scura, i baffi. Due sembrano gemelli. Fuori dal locale alzano lentamente le pistole. L’uomo con la donna sul petto si volta verso lo psichiatra: «Professore, ci deve seguire».
Boris non ha reazioni. Gli viene da guardare Malcolm. Pensa al proprio archivio, una gigantesca fonte di informazioni. Il detective fa scivolare la mano sotto al tavolo, rapido come un felino. Si sente il bottone della fondina fare un click appannato dalle dita di Malcolm che sgattaiolano per afferrare il calco della pistola e mettere l’indice sul grilletto. Boris continua a esitare.
«Allora, professore?» dice l’uomo.
Boris si alza dal tavolo. Perché vogliono sequestrarlo? Così gli torna in mente il nome dell’uomo, dall’archivio, il suo archivio. Si chiama Vasyl, come la persona descritta nella videochiamata. È di origini ucraine. Vasyl è stato un combattente, Malcolm lo ha indagato per una serie di omicidi. Mordecai lo conosce da tempo, da un’inchiesta giornalistica di dieci anni prima.
Il detective continua a toccare il grilletto. Boris inizia a ricordare. In quel momento, in cui la sua vita sembra avviarsi alla fine, torna indietro. Ha immaginato di morire in una villa dalle pareti e le finestre bianche, di marmo, sulla costa italiana; avrebbe messo i suoi libri in bella vista, per celebrare l’opera della sua esistenza; avrebbe accumulato degli enormi registri in scaffali che racchiudevano l’archivio, di pazienti, rassicurati, guariti negli anni della sua carriera; avrebbe avuto una vista tra piante alte e mare a specchio. Boris capisce di non voler perdere tutto ciò. Ha allora un sussulto, una reazione violenta, un emozionante «collasso».
IRRUZIONE NELLA SALA DA CAFFÈ, ESCLUSO TERRORISMO INTERNAZIONALE
Viene travolto da una randellata alla nuca. Sdraiato a terra rimane con gli occhi sbarrati, scandisce il tempo con gli ansimi, torna in apnea; gli altri lanciano le mani in testa, con le labbra bianche, gli occhi socchiusi. Boris si alza con fatica, si tiene il petto. Tossisce. Zoppica con la sinistra, poi mette la destra. Sta chinato. Fa respiri corti. Ogni tanto ansima. Si rialza con la schiena e va giù, solleva di un centimetro la spalla e rimette basso il braccio, sta chino con la testa e manda gli occhi in alto.
La folla inizia a urlare, cerca riparo tra i tavoli. L’uomo grasso stramazza, sbilanciato dal peso di un ragazzo che gli sviene addosso, la sua pistola cade a terra: rumore secco di ferro, che appena si può udire viste le urla che adesso sono forti come un concerto. I gemelli puntano a destra e a sinistra. Vasyl vede Malcolm che estrae l’arma. Nota l’inarcarsi della spalla prima che il detective superi un tavolo dietro con la pistola in posizione. A Vasyl parte un colpo, d’istinto. Malcolm non ci pensa su. Vede che l’uomo era senza controllo e mira al petto. Al cuore. Il proiettile gli attraversa i ventricoli. Il colpo fa schizzare del sangue all’esterno, va a sbattere sulla faccia della donna in ostaggio. Boris si accascia, dopo aver preso il colpo volante di Vasyl su una mano. Capisce che tutto sta finendo. Dal concerto delle urla che vanno scemando. I due gemelli e gli altri iniziano a correre. Boris, tra i piedi e i gemiti degli ospiti del locale, intravede la guancia sanguinosa della donna presa in ostaggio da Vasyl. Il sangue goccia e si sparge fino all’ingresso della sala da caffè.
Racconti | Carne | Federico Di Gregorio
Copertina: The Chariot of Apollo, Odilon Redon, 1905-1916